Affrontare le mie insicurezze e paure, accettare la mia identità, i limiti e i difetti. Tagliare, scavare, approfondire, esplorare nelle ferite, nelle fratture passate e presenti, temporanee e permanenti. Rivivere la solitudine dell’adolescenza mi aiuta, mi porta a dare il meglio di me, a non mollare mai, a non abbassare la guardia, per non tornare lì: mai più. Un periodo intenso e oscuro, una fase che mi porto dentro e contro la quale combatto il mostro.
Ecco la mia pittura: è il mio grido, il discorso che non so fare, tutto quello che non so dire con le parole.
Il mio lavoro ha cercato di affrontare, sempre, le verità profonde, i ritratti indagano la relazione tra memoria, sensazioni, presentimento, sogni e intuizioni. La somiglianza è secondaria. Più che cercare quella fisica, voglio far emergere gli aspetti inconsci della psiche, stimolando emozioni innate e represse, ridando somiglianza a tutto l’essere.
La ripetizione sistematica della stessa immagine fatta per la mostra “One Woman Show”, curata da Alberto Dambruoso, mi ha portato a sperimentare nuovi modi di dipingere alla ricerca di nuove forme, nuovi segni e nuovi materiali. Dipingo usando il tramite dello chiffon, filtro tra colore e pennello e tela. La leggerezza, l’impalpabilità, la trasparenza di quel tessuto, (residuo dell’altra mia passione - la moda) è il diaframma tra la mia volontà e la realtà del dipinto, quello che resta al termine sulla tela, appare come un’essenza purificata. Sì perché, solo quando rimuovo il tessuto, si svela una figura visivamente scolata ma psicologicamente aggregata che solletica la memoria, a cominciare dalla mia.
Il resto del colore rimane sullo chiffon, è come se quest’ultimo filtrasse la sofferenza e diventasse l’altra faccia del ritratto, quello in cui i contorni si perdono e le macchie si allargano, come sangue fuoriuscito dalle ferite, per mostrare la trasparenza più intima. La forma e il colore sullo chiffon non sono statici, variano per condizioni di luce, colori, oggetti circostanti e posizione di chi guarda. Ho provato a staccare il quadro dal muro. Girandoci intorno continua a cambiare forma e colore, una continua apparizione e sparizione alla ricerca di una identità che continua a perdersi, variare e ritrovarsi. Non esiste più il davanti o il dietro, il dritto e il rovescio, sono vite parallele che non si incrociano ma sono così vicine che quasi si sfiorano, in un perenne divenire.
Gli chiffon già dipinti li ritaglio e li riuso per formare nuovi lavori: il colore e soprattutto le forme rimandano alla mia ammirazione per il cubismo. Colori, matita, foglia oro mi servono a concettualizzare parti anatomiche, frammenti di volti che potrebbero sembrare solo estetici ma, impiegati per ridisegnare un nuovo volto o parti di esso trovano nella ricomposizione il loro senso compiuto. Gli stessi ritagli copiati e ingigantiti a mo’ di patchwork sono come enormi cerotti per suturare ferite. Le righe regolari drammatizzano il processo di frammentazione visiva e di ri-assemblaggio dei volti raffigurati nello sdoppiamento, un patchwork di disegni, dipinti fuori fuoco, sfumati dalla nebbia del colore.
Il ricamo, il filo diventa l’altro modo per ricomporre le fratture, ricollegare gli squarci, è rete di protezione o rete che ti intrappola. Allo stesso tempo crea sullo chiffon trame che si riflettono oltre la tela e che danno alla tela la profondità e la percezione di “altro” oltre il lavoro immediatamente visibile sulla superficie.
Spesso nei miei lavori la matita, il colore, le strisce di chiffon, il ricamo formano righe verticali o orizzontali, griglie che ricordano una gabbia, una prigione per esorcizzare il mio disagio claustrofobico. Ma il filo, tratteggiato sulla tela, mi riporta alle prime nozioni di disegno che mi dava mia mamma, quando mi incoraggiava a disegnare a tratteggio la frutta o le altre cose presenti in casa.
Ecco la mia pittura: è il mio grido, il discorso che non so fare, tutto quello che non so dire con le parole.
Il mio lavoro ha cercato di affrontare, sempre, le verità profonde, i ritratti indagano la relazione tra memoria, sensazioni, presentimento, sogni e intuizioni. La somiglianza è secondaria. Più che cercare quella fisica, voglio far emergere gli aspetti inconsci della psiche, stimolando emozioni innate e represse, ridando somiglianza a tutto l’essere.
La ripetizione sistematica della stessa immagine fatta per la mostra “One Woman Show”, curata da Alberto Dambruoso, mi ha portato a sperimentare nuovi modi di dipingere alla ricerca di nuove forme, nuovi segni e nuovi materiali. Dipingo usando il tramite dello chiffon, filtro tra colore e pennello e tela. La leggerezza, l’impalpabilità, la trasparenza di quel tessuto, (residuo dell’altra mia passione - la moda) è il diaframma tra la mia volontà e la realtà del dipinto, quello che resta al termine sulla tela, appare come un’essenza purificata. Sì perché, solo quando rimuovo il tessuto, si svela una figura visivamente scolata ma psicologicamente aggregata che solletica la memoria, a cominciare dalla mia.
Il resto del colore rimane sullo chiffon, è come se quest’ultimo filtrasse la sofferenza e diventasse l’altra faccia del ritratto, quello in cui i contorni si perdono e le macchie si allargano, come sangue fuoriuscito dalle ferite, per mostrare la trasparenza più intima. La forma e il colore sullo chiffon non sono statici, variano per condizioni di luce, colori, oggetti circostanti e posizione di chi guarda. Ho provato a staccare il quadro dal muro. Girandoci intorno continua a cambiare forma e colore, una continua apparizione e sparizione alla ricerca di una identità che continua a perdersi, variare e ritrovarsi. Non esiste più il davanti o il dietro, il dritto e il rovescio, sono vite parallele che non si incrociano ma sono così vicine che quasi si sfiorano, in un perenne divenire.
Gli chiffon già dipinti li ritaglio e li riuso per formare nuovi lavori: il colore e soprattutto le forme rimandano alla mia ammirazione per il cubismo. Colori, matita, foglia oro mi servono a concettualizzare parti anatomiche, frammenti di volti che potrebbero sembrare solo estetici ma, impiegati per ridisegnare un nuovo volto o parti di esso trovano nella ricomposizione il loro senso compiuto. Gli stessi ritagli copiati e ingigantiti a mo’ di patchwork sono come enormi cerotti per suturare ferite. Le righe regolari drammatizzano il processo di frammentazione visiva e di ri-assemblaggio dei volti raffigurati nello sdoppiamento, un patchwork di disegni, dipinti fuori fuoco, sfumati dalla nebbia del colore.
Il ricamo, il filo diventa l’altro modo per ricomporre le fratture, ricollegare gli squarci, è rete di protezione o rete che ti intrappola. Allo stesso tempo crea sullo chiffon trame che si riflettono oltre la tela e che danno alla tela la profondità e la percezione di “altro” oltre il lavoro immediatamente visibile sulla superficie.
Spesso nei miei lavori la matita, il colore, le strisce di chiffon, il ricamo formano righe verticali o orizzontali, griglie che ricordano una gabbia, una prigione per esorcizzare il mio disagio claustrofobico. Ma il filo, tratteggiato sulla tela, mi riporta alle prime nozioni di disegno che mi dava mia mamma, quando mi incoraggiava a disegnare a tratteggio la frutta o le altre cose presenti in casa.