Il Mattatoio di Roma ha inaugurato martedì 13 luglio, al Padiglione 9B, la mostra Prinz Gholam. While Being Other, curata da Angel Moya Garcia e visibile al pubblico fino al 12 settembre.
Si tratta di un progetto appartenente al programma Estate Romana 2021, promosso da ROMA Culture in collaborazione con l’Accademia Tedesca Roma Villa Massimo. È il terzo capitolo (dopo Andrea Galvani. La sottigliezza delle cose elevate e Luigi Presicce. Le storie della vera croce) del programma triennale Dispositivi Sensibili, ideato da Moya Garcia appositamente per la struttura e incentrato sulla convergenza fra azioni estetiche e performative, secondo un paradigma di presentazione in continua evoluzione.
Prinz Gholam: un’unione di cognomi a favore di una crasi culturale
Prinz Gholam sta per Wolfgang Prinz (Leutkirch im Allgäu, 1969) e Michel Gholam (Beirut, 1963), il duo di artisti vincitori del Premio Roma Villa Massimo 2020/2021. Di provenienza e cultura differenti, svolgono da vent’anni una ricerca sulla percezione del proprio Io e sulla concezione del corpo come assunti culturali, dando vita a una pratica performativa indirizzata a reinterpretare i nostri più antichi e più contemporanei riferimenti antropologici.
I loro lavori, spesso realizzati in luoghi storicamente importanti come siti archeologici, spazi pubblici e musei, tra questi documenta 14 di Kassel (2017), Galerie Jocelyn Wolff di Parigi (2018) e Palazzo Altemps di Roma (2020), spingono gli individui verso un’inevitabile abbandono dei propri usi e costumi, invitando alla perdita di qualsiasi disuguaglianza ideologica e riportando alla mente l’unico valore egualitario che è quello umano.
Un percorso espositivo multidimensionale e circolare
Il lavoro di ricerca di Prinz Gholam, attraverso questa esposizione, si manifesta come prodotto continuativo di un coerente e corrispondente processo di creazione da loro istituito. Da una parte troviamo una serie di disegni a matita dalle grandi dimensioni, realizzata proprio durante la loro residenza a Villa Medici, sovrastata da maschere ritagliate e posizionate sulle colonne che la costeggiano. La semplificazione dei piani, la modificazione delle proporzioni, il vivace uso del colore caratterizzano tali disegni, dando vita a un universo cromatico di individui e costruzioni, i cui volti e facciate si confondono. Costituite da una forte simbologia derivante dal mondo arcaico, le opere accolgono quella forma di Primitivismo a cui hanno aderito gli artisti, come Henri Matisse (Le Cateau-Cambrésis, 1869) e Pablo Picasso (Málaga, 1881), delle avanguardie del Novecento e quel rifiuto di “rappresentare in forma canonica una realtà arbitraria”.
Poi vi è la copertina e la prima pagina di un’opera teatrale degli Anni Cinquanta, “prese in prestito”, citando le parole dello stesso curatore, per approfondire il rapporto tra identità e alterità dell’uomo.
Il punto di fuga dello spazio espositivo è dato da una moltitudine irregolare di sassi di piccolo formato che, attraverso alcune modifiche, assumono una fisionomia umana, a metà tra volto e maschera. “L’ultima parte della mostra è costituita da un’installazione di pietre che gli artisti hanno iniziato a raccogliere dal 2017 fino al mese scorso, con l’obiettivo di spiegare in che modo l’essere umano possa proiettare la propria natura anche in ambito geologico. Alcune composizioni sono realizzate da loro, altre sono semplicemente pietre che, in qualche maniera, evocano il concetto atavico della maschera e la circolarità tematica dell’esposizione”, spiega Angel Moya Garcia.
Una performance in loco come leva sulla libera contaminazione
Infine vi è la pratica performativa, la struttura pulsante, il “luogo” della confluenza delle discipline polidimensionali in mostra, realizzata dagli artisti in situ. Privo di riferimenti a priori, ogni particolare è portatore di senso solo in quanto riferito alla dimensione totale dell’azione. Essa svela la chiave di lettura celata dall’anonimato di Prinz Gholam, dettato dal continuo cambio di maschere, anch’esse realizzate dal duo. Gesti inizialmente ridotti, studiati e coreografati fanno leva sulla libera contaminazione; essi diventano graduale allusione di abitudini comportamentali e normativi, la cui specificità invita il pubblico a relazionare ciò che percepisce con ciò che compie, in un’instabile ambiguità tra chi osserva e chi è osservato.