opera
Contrattempo#Dignano
categoria | Fotografia |
soggetto | Architettura |
tags | archeologia industriale, luce artificiale, tempo, storico, notturno, illuminazione , fotografia analogica, abbandonato, dismesso |
base | 100 cm |
altezza | 100 cm |
profondità | 0 cm |
anno | 1998 |
Stefano Tubaro | progetto “Contrattempi” | 1997 - 2002
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Contrattempo#Dignano, stampa fotografica a sviluppo cromogeno da pellicola negativa, carta fotosensibile assemblata su alluminio, 3 esemplari
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Nessuno nasce più dalla schiuma del mare. Anche il lavoro di Stefano Tubaro, a prima vista così sorprendente nel panorama attuale della fotografia, ha - per sua fortuna - molte radici, alcune delle quali affondano lontano nel tempo. La prima cosa che colpisce nelle immagini di Tubaro è il contrasto tra il contesto ambientale, degradato o comunque posto ai margini dell’attualità, e il gioco di luci che lo investe con un’intensità iper-tecnologica che ha delle grandi analogie solo con quella dei palcoscenici dei grandi concerti rock. Se, però, si va ad indagare in che modo siano stati ottenuti questi effetti, si scopre che essi sono il risultato di un recupero di tecniche d’illuminazione già usate nel secolo scorso dagli Alinari. Questi, infatti, per ottenere le loro famose immagini leggibili in ogni particolare nonostante gli edifici fossero annegati negli spazi angusti delle vecchie città, “pennellavano” con fasci di luce le ampie superfici durante lunghissimi tempi d’esposizione. Ed é proprio quello che Tubaro dice di aver fatto. Bisogna credergli, altrimenti non si spiegherebbe la presenza di figure fantasmatiche nelle sue fotografie che non sono altro che le scie lasciate dall’autore stesso mentre si muove nella scarsa luce della sera ” pennellando” gli edifici con luci multicolori. Queste fotografie, dal fortissimo impatto visivo, in realtà hanno una struttura molto complessa dove concorrono tempi d’esecuzione insoliti e insolite tecniche operative. La loro apparenza scenografica non deve trarre in inganno; essa nasconde la volontà del loro autore di entrare con tutto il proprio corpo nelle immagini stesse. Che cosa sta a significare tutto questo se non che Tubaro, sentendo il bisogno di confondersi, di “impastarsi” con le proprie immagini, esprime una reazione al dilagare delle immagini virtuali che negano ogni autentica fisicità?
Franco Vaccari
(testo di presentazione per la mostra itinerante alla: Fondazione Italiana per la Fotografia, Torino; Chiesa SS. Quirico e Siro, Pavia; Chiesa del Suffragio, Savignano sul Rubicone; Galleria dell’Ecole d’Arts Appliquès, Vevey-Switzerland, 1999)
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Più elementi si congiungono in questa colorata ricerca di Stefano Tubaro. Una serie di luoghi abbandonati, strutture dismesse, vengono scelti come oggetti d’attenzione non in chiave descrittiva-documentaria, ma come piccoli teatri di eventi. L’autore - é importante sottolineare - opera delle vere e proprie azioni, e di una certa durata: stando nel buio anima lo spazio, ne illumina a lungo delle parti e poi realizza le riprese. E’ la luce dunque - la base stessa della fotografia - ad intervenire sulla realtà fisica, creando zone di colore che “rivitalizzano” architetture senza più funzione, spostandole di colpo dal piano reale a quello onirico. Il lavoro, sebbene fortemente progettato, lascia aperto un importante spiraglio al caso, poichè l’esito finale dell’immagine non è del tutto prevedibile (potrebbe riservare dei “contrattempi”), e questo mette ancora di più l’accento sull’importanza dell’interazione fra allestimento della scena e successiva ripresa. Si tratta allora di un paesaggio creato veramente “in diretta” attraverso la luce, secondo una operazione di lontana ascendenza land art, che la ripresa fotografica definisce e non, come potrebbe apparire, di immagini realizzate attraverso coloriture di tipo digitale operate a posteriori. Questa sovrapposizione di realtà di luce/colore alla realtà fisica trova nella ripresa fotografica finale una sorta di consacrazione oltre la quale non ha significato andare, come invece all’opposto avverrebbe nell’immagine elaborata in senso digitale, che si risolve tutta dopo la ripresa. Che sia piuttosto l’elemento umano – e non il peso della tecnologia – a determinare l’identità di queste opere fotografiche è confermato dalla presenza in silhouette di una figura, l’autore stesso, che afferma così anche visivamente la sua presenza nelle diverse fasi dell’operazione. L’utilizzo di colori netti, ben definiti, e questo sovrapporre colore artificiale a colore naturale, innestano nelle immagini puramente fotografiche di Tubaro alcuni codici della pittura o dell’illustrazione, introduce un senso di favola, di luogo “altro”, e al tempo stesso allude alla separazione dei colori, che sta alla radice del senso stesso della luce oltre che alla base di tutte le tecniche di riproduzione meccanica, ad esempio la tipografia e la serigrafia, a loro volta arti che, come la fotografia, hanno come base di partenza proprio ed esattamente l’elemento vitale della luce.
Roberta Valtorta
(testo di presentazione nel catalogo della mostra “Contrattempi di scena”, Galleria Artestudio Clocchiatti, Udine, 2000)
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Contrattempo#Dignano, stampa fotografica a sviluppo cromogeno da pellicola negativa, carta fotosensibile assemblata su alluminio, 3 esemplari
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Nessuno nasce più dalla schiuma del mare. Anche il lavoro di Stefano Tubaro, a prima vista così sorprendente nel panorama attuale della fotografia, ha - per sua fortuna - molte radici, alcune delle quali affondano lontano nel tempo. La prima cosa che colpisce nelle immagini di Tubaro è il contrasto tra il contesto ambientale, degradato o comunque posto ai margini dell’attualità, e il gioco di luci che lo investe con un’intensità iper-tecnologica che ha delle grandi analogie solo con quella dei palcoscenici dei grandi concerti rock. Se, però, si va ad indagare in che modo siano stati ottenuti questi effetti, si scopre che essi sono il risultato di un recupero di tecniche d’illuminazione già usate nel secolo scorso dagli Alinari. Questi, infatti, per ottenere le loro famose immagini leggibili in ogni particolare nonostante gli edifici fossero annegati negli spazi angusti delle vecchie città, “pennellavano” con fasci di luce le ampie superfici durante lunghissimi tempi d’esposizione. Ed é proprio quello che Tubaro dice di aver fatto. Bisogna credergli, altrimenti non si spiegherebbe la presenza di figure fantasmatiche nelle sue fotografie che non sono altro che le scie lasciate dall’autore stesso mentre si muove nella scarsa luce della sera ” pennellando” gli edifici con luci multicolori. Queste fotografie, dal fortissimo impatto visivo, in realtà hanno una struttura molto complessa dove concorrono tempi d’esecuzione insoliti e insolite tecniche operative. La loro apparenza scenografica non deve trarre in inganno; essa nasconde la volontà del loro autore di entrare con tutto il proprio corpo nelle immagini stesse. Che cosa sta a significare tutto questo se non che Tubaro, sentendo il bisogno di confondersi, di “impastarsi” con le proprie immagini, esprime una reazione al dilagare delle immagini virtuali che negano ogni autentica fisicità?
Franco Vaccari
(testo di presentazione per la mostra itinerante alla: Fondazione Italiana per la Fotografia, Torino; Chiesa SS. Quirico e Siro, Pavia; Chiesa del Suffragio, Savignano sul Rubicone; Galleria dell’Ecole d’Arts Appliquès, Vevey-Switzerland, 1999)
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Più elementi si congiungono in questa colorata ricerca di Stefano Tubaro. Una serie di luoghi abbandonati, strutture dismesse, vengono scelti come oggetti d’attenzione non in chiave descrittiva-documentaria, ma come piccoli teatri di eventi. L’autore - é importante sottolineare - opera delle vere e proprie azioni, e di una certa durata: stando nel buio anima lo spazio, ne illumina a lungo delle parti e poi realizza le riprese. E’ la luce dunque - la base stessa della fotografia - ad intervenire sulla realtà fisica, creando zone di colore che “rivitalizzano” architetture senza più funzione, spostandole di colpo dal piano reale a quello onirico. Il lavoro, sebbene fortemente progettato, lascia aperto un importante spiraglio al caso, poichè l’esito finale dell’immagine non è del tutto prevedibile (potrebbe riservare dei “contrattempi”), e questo mette ancora di più l’accento sull’importanza dell’interazione fra allestimento della scena e successiva ripresa. Si tratta allora di un paesaggio creato veramente “in diretta” attraverso la luce, secondo una operazione di lontana ascendenza land art, che la ripresa fotografica definisce e non, come potrebbe apparire, di immagini realizzate attraverso coloriture di tipo digitale operate a posteriori. Questa sovrapposizione di realtà di luce/colore alla realtà fisica trova nella ripresa fotografica finale una sorta di consacrazione oltre la quale non ha significato andare, come invece all’opposto avverrebbe nell’immagine elaborata in senso digitale, che si risolve tutta dopo la ripresa. Che sia piuttosto l’elemento umano – e non il peso della tecnologia – a determinare l’identità di queste opere fotografiche è confermato dalla presenza in silhouette di una figura, l’autore stesso, che afferma così anche visivamente la sua presenza nelle diverse fasi dell’operazione. L’utilizzo di colori netti, ben definiti, e questo sovrapporre colore artificiale a colore naturale, innestano nelle immagini puramente fotografiche di Tubaro alcuni codici della pittura o dell’illustrazione, introduce un senso di favola, di luogo “altro”, e al tempo stesso allude alla separazione dei colori, che sta alla radice del senso stesso della luce oltre che alla base di tutte le tecniche di riproduzione meccanica, ad esempio la tipografia e la serigrafia, a loro volta arti che, come la fotografia, hanno come base di partenza proprio ed esattamente l’elemento vitale della luce.
Roberta Valtorta
(testo di presentazione nel catalogo della mostra “Contrattempi di scena”, Galleria Artestudio Clocchiatti, Udine, 2000)