Sono Adrian Zamic e sono nato nel 1959 a Postumia, in Slovenia.
La mia infanzia non la ricordo con piacere; mi sentivo diverso ed ero attratto da tutto ciò che intorno a me esprimeva bellezza e, mentre i miei coetanei giocavano a pallone, io disegnavo continuamente su ogni pezzo di carta che avevo a disposizione. Ovunque mi trovassi a camminare, venivo catturato dai brandelli di legno nei quali mi imbattevo: ne studiavo la forma, ne ammiravo il colore e le venature e, infine, trovavo per loro un’anima. Nella mia immaginazione, quei morsi di legno erano protagonisti di potenziali opere artistiche mai esistite.
In famiglia, questa mia inclinazione non è stata percepita e quindi non poteva neanche essere incoraggiata.
Terminati gli studi, ero sempre più attratto dal paese collocato di fianco al mio, autentica culla dell’arte, e mi trovavo a pensare che avrei voluto nascere lì.
Ero ormai diventato consapevole di voler rompere le mie catene, lasciare tutto e affrontare il mondo con uno spirito che fosse realmente libero, anzi, con uno spirito che fosse davvero il mio, dedicato solo all’arte.
Nel 1984 realizzo il sogno di trasferirmi a Roma, dove tutto intorno a me era un inno al talento della mente e dello spirito; sempre di più capivo che io non volevo studiare l’arte, né tantomeno ispirarmi a qualcuno di preciso; io volevo “fare arte”, esprimermi a modo mio, basandomi su quello che la mia percezione comunicava alla mia anima.
Sebbene pensassi che il sogno fosse irrinunciabile, mi trovai a fare i conti con la realtà e la vita mi portò a lavorare in un altro senso, sebbene abbia sempre scelto lavori di natura creativa.
Il tempo era quasi totalmente dedicato alla mia agenzia di moda e spettacolo; attività alla quale sono grato e che mi ha permesso di conoscere e relazionarmi con molti personaggi noti non solo della moda, ma anche dello spettacolo e della cultura.
È proprio in questo periodo, a metà degli anni ’90, che avviene l’incontro che mi segnerà per il resto della mia vita.
Marta Marzotto entra un giorno nella mia agenzia, dove erano esposte le opere di un solo autore, ma oltre a quelle c’era anche una mia opera di dimensioni piuttosto contenute. Era un’opera fatta di legno e tessuti che avevo intitolato “La struttura delle piogge”.
Inaspettatamente, Marta Marzotto chiese di chi fosse quell’opera che si distingueva dalle altre e, quando le risposi che era la mia, mi disse che avrei dovuto fare un altro lavoro, che avrei dovuto dedicarmi totalmente alla mia arte piuttosto singolare.
All’epoca avevo creato non più di una decina di opere, che in parte si trovano ancora nella casa materna, mentre ho regalato “La struttura delle piogge” a una cara amica serba che mi è sempre stata molto vicina, in occasione del suo compleanno.
Sebbene il riscontro ricevuto da Marta Marzotto fosse stato per me a dir poco esaltante, riconosco oggi che all’epoca non ebbi coraggio; così, decisi di mettere tutto il mio sentire in una bellissima scatola, provvista di una enorme serratura che chiusi ben bene a chiave.
Per quanto mi convincessi che era giusto lavorare come stavo facendo, le parole di Marta Marzotto tornavano alla mente sempre più insistentemente. Quelle parole mi davano fiducia e mi mettevano in movimento “dentro”, un movimento così forte da essere quasi turbolento, anzi impetuoso, praticamente inarrestabile.
Mi sono dovuto arrendere: ho “dovuto” decidere di aprire quella serratura, che si era anche arrugginita, e affrontare una volta per tutte il contenuto di quella scatola tanto bella quanto terrificante.
Complice di questa mia decisione, il periodo buio della pandemia che mi ha isolato da tutte quelle circostanze che mi trovavo a vivere senza averle scelte; ho dovuto decidere che cosa fosse importante per me e per chi valesse la pena correre dei rischi.
La situazione anomala in cui tutto il mondo si è trovato mi ha letteralmente obbligato a riflettere sul senso della vita, su come impiegarla e sulla preziosità di ogni singolo istante.
Ho capito che era l’ultima occasione per decidere di fare ciò che veramente volevo fare, e ho maturato la convinzione che il detto della mia infanzia, “L’erba voglio non nasce nemmeno nel giardino del Re”, sia quanto di più diseducativo si possa dire a un bambino che sta imparando a conoscere il mondo.
Così è esplosa la mia arte, e la mia frenetica attività una inevitabile conseguenza; ho seguito la mia ispirazione senza pensare troppo finché ho capito finalmente di aver trovato la strada giusta.
Nel primo periodo, il primo anno circa, mi sono dedicato alla figura e assecondavo la mia esigenza di mettere almeno “un individuo” nelle mie opere.
Poi ho iniziato a concentrarmi sul senso delle mie rappresentazioni e oggi mi esprimo nella forma astratta e creo quelle che io chiamo opere-racconto.
L’essenziale mi anima interiormente perché mi permette di esprimere un sentire che avverto in qualche modo universale, e a volte anche molto antico.
Sono grato al maestro Paolo D’Orazio, mio maestro per un tempo troppo breve purtroppo, ma la sua personale sintesi, propria della sua arte e del suo modo di vivere, è stata per me talmente incisiva da farmi vedere una possibile ulteriore evoluzione: quando si dice che l’arte è vita…
Dimenticavo, il nome che mi hanno dato alla nascita è Jadran Zamic.
testo di Giuseppina Sinatra
La mia infanzia non la ricordo con piacere; mi sentivo diverso ed ero attratto da tutto ciò che intorno a me esprimeva bellezza e, mentre i miei coetanei giocavano a pallone, io disegnavo continuamente su ogni pezzo di carta che avevo a disposizione. Ovunque mi trovassi a camminare, venivo catturato dai brandelli di legno nei quali mi imbattevo: ne studiavo la forma, ne ammiravo il colore e le venature e, infine, trovavo per loro un’anima. Nella mia immaginazione, quei morsi di legno erano protagonisti di potenziali opere artistiche mai esistite.
In famiglia, questa mia inclinazione non è stata percepita e quindi non poteva neanche essere incoraggiata.
Terminati gli studi, ero sempre più attratto dal paese collocato di fianco al mio, autentica culla dell’arte, e mi trovavo a pensare che avrei voluto nascere lì.
Ero ormai diventato consapevole di voler rompere le mie catene, lasciare tutto e affrontare il mondo con uno spirito che fosse realmente libero, anzi, con uno spirito che fosse davvero il mio, dedicato solo all’arte.
Nel 1984 realizzo il sogno di trasferirmi a Roma, dove tutto intorno a me era un inno al talento della mente e dello spirito; sempre di più capivo che io non volevo studiare l’arte, né tantomeno ispirarmi a qualcuno di preciso; io volevo “fare arte”, esprimermi a modo mio, basandomi su quello che la mia percezione comunicava alla mia anima.
Sebbene pensassi che il sogno fosse irrinunciabile, mi trovai a fare i conti con la realtà e la vita mi portò a lavorare in un altro senso, sebbene abbia sempre scelto lavori di natura creativa.
Il tempo era quasi totalmente dedicato alla mia agenzia di moda e spettacolo; attività alla quale sono grato e che mi ha permesso di conoscere e relazionarmi con molti personaggi noti non solo della moda, ma anche dello spettacolo e della cultura.
È proprio in questo periodo, a metà degli anni ’90, che avviene l’incontro che mi segnerà per il resto della mia vita.
Marta Marzotto entra un giorno nella mia agenzia, dove erano esposte le opere di un solo autore, ma oltre a quelle c’era anche una mia opera di dimensioni piuttosto contenute. Era un’opera fatta di legno e tessuti che avevo intitolato “La struttura delle piogge”.
Inaspettatamente, Marta Marzotto chiese di chi fosse quell’opera che si distingueva dalle altre e, quando le risposi che era la mia, mi disse che avrei dovuto fare un altro lavoro, che avrei dovuto dedicarmi totalmente alla mia arte piuttosto singolare.
All’epoca avevo creato non più di una decina di opere, che in parte si trovano ancora nella casa materna, mentre ho regalato “La struttura delle piogge” a una cara amica serba che mi è sempre stata molto vicina, in occasione del suo compleanno.
Sebbene il riscontro ricevuto da Marta Marzotto fosse stato per me a dir poco esaltante, riconosco oggi che all’epoca non ebbi coraggio; così, decisi di mettere tutto il mio sentire in una bellissima scatola, provvista di una enorme serratura che chiusi ben bene a chiave.
Per quanto mi convincessi che era giusto lavorare come stavo facendo, le parole di Marta Marzotto tornavano alla mente sempre più insistentemente. Quelle parole mi davano fiducia e mi mettevano in movimento “dentro”, un movimento così forte da essere quasi turbolento, anzi impetuoso, praticamente inarrestabile.
Mi sono dovuto arrendere: ho “dovuto” decidere di aprire quella serratura, che si era anche arrugginita, e affrontare una volta per tutte il contenuto di quella scatola tanto bella quanto terrificante.
Complice di questa mia decisione, il periodo buio della pandemia che mi ha isolato da tutte quelle circostanze che mi trovavo a vivere senza averle scelte; ho dovuto decidere che cosa fosse importante per me e per chi valesse la pena correre dei rischi.
La situazione anomala in cui tutto il mondo si è trovato mi ha letteralmente obbligato a riflettere sul senso della vita, su come impiegarla e sulla preziosità di ogni singolo istante.
Ho capito che era l’ultima occasione per decidere di fare ciò che veramente volevo fare, e ho maturato la convinzione che il detto della mia infanzia, “L’erba voglio non nasce nemmeno nel giardino del Re”, sia quanto di più diseducativo si possa dire a un bambino che sta imparando a conoscere il mondo.
Così è esplosa la mia arte, e la mia frenetica attività una inevitabile conseguenza; ho seguito la mia ispirazione senza pensare troppo finché ho capito finalmente di aver trovato la strada giusta.
Nel primo periodo, il primo anno circa, mi sono dedicato alla figura e assecondavo la mia esigenza di mettere almeno “un individuo” nelle mie opere.
Poi ho iniziato a concentrarmi sul senso delle mie rappresentazioni e oggi mi esprimo nella forma astratta e creo quelle che io chiamo opere-racconto.
L’essenziale mi anima interiormente perché mi permette di esprimere un sentire che avverto in qualche modo universale, e a volte anche molto antico.
Sono grato al maestro Paolo D’Orazio, mio maestro per un tempo troppo breve purtroppo, ma la sua personale sintesi, propria della sua arte e del suo modo di vivere, è stata per me talmente incisiva da farmi vedere una possibile ulteriore evoluzione: quando si dice che l’arte è vita…
Dimenticavo, il nome che mi hanno dato alla nascita è Jadran Zamic.
testo di Giuseppina Sinatra