La pittura – come il rock 'n' roll – non muore ed è a Lei che, tra il 2021 e il 2023, Maricetta Megna torna e lo fa con un’ispirazione elegiaca, intima. Alla gestualità minuta del disegno, dell’oreficeria e della fotografia preferisce tele di medio e grande formato. A generare queste opere è un immaginario decadente che affonda le radici negli interni dei palazzi della sua città, Palermo, e in quella fascinazione che bascula tra sentimento della vita e afflato della morte intrisa nella cultura della sua terra, la Sicilia.
Queste tele evocano la superficie di un affresco in stato di abbandono, da cui emerge l’intonaco del fondo, segnato da crepe, velature, precedenti interventi di restauro. L’artista trasferisce sulla tela l’impressione di una superficie parietale e di tutta la sua matericità: il muro si fa corpo e si presenta come fosse un’epidermide, conservandone le stratificazioni, le abrasioni che l’incedere del tempo ha collezionato e le cicatrici. Per Megna la pittura assurge a utensile, strumento di recupero, di cura e di salvezza, capace di costruire una nuova narrazione, nel rispetto della memoria, del passato, della Storia. La pittura trasforma la storia di una rovina in una rivoluzione possibile, per la materia, per l’immaginario, per l’artista e per la comunità. Tutto succede dopo aver masticato il proprio vissuto attraverso pancia, la memoria e l’immaginazione; il piano del tempo e dello spazio sfumano in una condizione di eterno movimento, di mutamento molle, di percezioni labili di un’istante immeritamente precedente destinato a cambiare forma. Ed è per questo che ci lascia addosso la voglia di tornare a guardare dentro a queste tele per sapere cosa ne sarà tra un giorno, una settimana, un anno, quando a cambiare è stato il nostro sguardo.
Come accade per “lo strappo nel cielo di carta” di Luigi Pirandello, da una ferita può nascere la complessità; l’artista ci tende la mando, generosa, regalandoci un’occasione per allenare i muscoli del dolore, coltivare la nostalgia e aprire le braccia alla bellezza.
Queste tele evocano la superficie di un affresco in stato di abbandono, da cui emerge l’intonaco del fondo, segnato da crepe, velature, precedenti interventi di restauro. L’artista trasferisce sulla tela l’impressione di una superficie parietale e di tutta la sua matericità: il muro si fa corpo e si presenta come fosse un’epidermide, conservandone le stratificazioni, le abrasioni che l’incedere del tempo ha collezionato e le cicatrici. Per Megna la pittura assurge a utensile, strumento di recupero, di cura e di salvezza, capace di costruire una nuova narrazione, nel rispetto della memoria, del passato, della Storia. La pittura trasforma la storia di una rovina in una rivoluzione possibile, per la materia, per l’immaginario, per l’artista e per la comunità. Tutto succede dopo aver masticato il proprio vissuto attraverso pancia, la memoria e l’immaginazione; il piano del tempo e dello spazio sfumano in una condizione di eterno movimento, di mutamento molle, di percezioni labili di un’istante immeritamente precedente destinato a cambiare forma. Ed è per questo che ci lascia addosso la voglia di tornare a guardare dentro a queste tele per sapere cosa ne sarà tra un giorno, una settimana, un anno, quando a cambiare è stato il nostro sguardo.
Come accade per “lo strappo nel cielo di carta” di Luigi Pirandello, da una ferita può nascere la complessità; l’artista ci tende la mando, generosa, regalandoci un’occasione per allenare i muscoli del dolore, coltivare la nostalgia e aprire le braccia alla bellezza.