opera
COME UN FIUME (VERSO LA FOCE)
categoria | Installazione |
soggetto | Politico/Sociale, Paesaggio, Natura, Astratto |
tags | |
base | 630 cm |
altezza | 180 cm |
profondità | 5 cm |
anno | 2019 |
Installazione assemblaggio di ecoline e grafite su carta, legno e luce led. 40 elementi 30x30 cm ciascuno, 1 elemento 30x30x5 cm, misure complessive 180x630 cm.
Il progetto “Come un fiume (verso la foce)”, composto dall’installazione omonima e da altre quattro opere a parete, nasce all'interno della riflessione sui confini, che sta conducendo da circa quattro anni. L’artista ci accompagna in un percorso fluttuante, come la corrente di un fiume, un percorso nascosto, come un fiume carsico, fatto di sedimenti, transizioni, attraversamenti e germinazioni alla scoperta di particolari elementi del paesaggio naturale e costruito dall'uomo, luoghi che o la natura o gli uomini o le vicende della storia condivisa o personale hanno caricato di significato, luoghi che diventano simboli delle esistenze minime o grandi, dei destini, delle passioni, di tutte le vicende umane che li hanno segnati. Una stratificazione di storia/geografia come forma di ordine mentale, quasi cosmico, come strumento di definizione del reale e del mistero della vita e dell'anima. Protagonisti sono il fiume Isonzo, le onde, le anse, la sabbia, la terra coltivata, le pietre, le fortificazioni, le costruzioni dell’uomo, i palazzi di Gradisca e i confini, immagini e figure ricorrenti nella ricerca dell’artista. Ciascuno di questi protagonisti si rispecchia e si integra nella parabola di ogni esistenza umana – nella compresenza di presente e di passato, di effimero e di eterno, epifania dell'attimo e della memoria, ore fuggitive o secoli lontani, nel rapporto tra spazio e tempo, nella presenza, nell'assenza, nell'identità e la sua incertezza, nella chiusura e nella mescolanza, in confini tracciati e varcati, nel continuo attraversamento di confini d'ogni genere. Il confine caratterizza il percorso di Federica attuando una ricerca al limite tra le discipline delle arti visive. Ogni velo d’organza, fotografia a doppia esposizione o videoinstallazione, non sono semplici supporti, ma determinanti elementi che concorrono nella significazione dell’opera, imponendo uno slancio agli osservatori che vogliono scoprire cosa vi si cela dietro. Il lavoro di Federica permette una molteplice stratificazione di materiali e di interpretazioni. Ogni percorso interpretativo finisce per supporne un altro, così che non possa mai dirsi completamente esaurita la lettura. Il senso dell'opera d'arte, è nella stratificazione di trasparenze: la “densità” di un'opera deve consentire di intravedere quanto è oggetto della rappresentazione. Dovunque corrono confini che si oltrepassano senza accorgersene, che conducono ad un universo altro. Il mondo è tutto una frontiera che divide e unisce. In ogni traccia, in ogni velo, che compongono il percorso di “Come un fiume (verso la foce)” l’osservatore scopre il proprio volto, il senso o il filo della propria esistenza, del proprio labile e appassionato passaggio sulla terra. Il fiume, venerato come divinità fin dall’antichità, è per chi vi si rapporta, vita e morte, sostentamento e insidia. Il fiume Isonzo, presenza leggendaria, fonte d’ispirazione da sempre, è per poeti e scrittori, ricordo e riflessione anche in conseguenza di tutto ciò che il fiume ha rappresentato e rappresenta. L’Isonzo è stato teatro di battaglie dal 400 d.C. fino alla Prima guerra mondiale, durante la quale lungo le sue sponde ebbero luogo le maggiori operazioni militari sul fronte italiano e in particolare le sanguinose dodici battaglie dell'Isonzo, dove caddero oltre 300.000 tra italiani e austroungarici. Il fiume Isonzo raccoglie inevitabilmente le testimonianze della storia, della memoria europea. Nell’installazione l’acqua del fiume diventa un rivolo d’inchiostro di ecoline che dalla sorgente alla foce si snoda descrivendone ogni curva e deposito, mentre attraversa lo stesso spazio espositivo. Ne “La coscienza di Zeno”, Italo Svevo scrive: “Per raccogliermi meglio passai il pomeriggio del secondo giorno solitario alle rive dell’Isonzo. Non c'è miglior raccoglimento che stare a guardare l'acqua corrente. Si sta fermi e l'acqua corrente fornisce lo svago che occorre perché non è uguale a sé stessa nel colore e nel disegno neppure per un attimo”. Nella celebre poesia “I fiumi” scritta in trincea, durante la guerra, Giuseppe Ungaretti rievoca, con i propri ricordi personali, tutti i fiumi che ha conosciuto, simbolo delle diverse tappe della sua vita, ristabilimento grazie ad essi, un rapporto di armonia con il creato e con se stesso, che l’esperienza della guerra sembrava aver infranto. Nella prima parte della poesia il poeta descrive la condizione materiale ed emotiva in cui si trova, immerso nelle acque dell’Isonzo presso una dolina. Ungaretti descrive il suo stato d’animo di reduce dalla guerra, disteso nel letto del fiume Isonzo si sente come una reliquia, un frammento superstite – e pertanto maggiormente prezioso – di un resto mortale, si sente come uno dei sassi levigati su cui cammina con movenze d'acrobata, sotto il sole, il cui calore benefico riceve con la stessa familiarità di un beduino. Affidato alle mani amorevoli dell’Isonzo il poeta si riconosce parte dell’universo, cosciente che il suo rammarico è frutto sempre di una disarmonia con il creato. Le acque del fiume lo lavano e lo purificano e gli danno una rara innocente felicità. Citando “Microcosmi” di Claudio Magris, grande narratore delle terre orientali, delle frontiere, della contaminazione, dalla civiltà intesa come conoscenza e coesistenza: “Il fiume corrode e consuma il greto, la storia scava la roccia e scende sempre più giù, incide come una lama la sfera rugosa che ruota negli spazi; un bel giorno i tagli arriveranno al centro della terra e i pezzi del cocomero affettato se ne andranno ciascuno per conto suo. I detriti del tempo, che concimano le valli e i prati dove il pastore vive per mesi con le sue bestie, sono ossa antiche riconciliate nell'humus che le rimpasta” così come lo “scontrarsi, mescolarsi, distruggersi e sparire” delle genti che abitano lungo il corso del fiume stesso. Ogni endogamia è asfittica perché è la negazione stessa della vita, che è un porto di mare, o un fiume, non un recinto chiuso. Ogni identità è orribile, se per resistere deve tracciare un confine e respingere chi sta dall’altra parte. È comunque possibile essere attenti all’identità e ai valori di un luogo senza cadere in quella istintività campanilistica che oggi spesso rende ottusa e regressiva la riscoperta delle origini e delle etnie, perché l’identità stessa è un aggregato e ha poco senso scomporlo per arrivare ad una ipotetica unità di base. La storia viene levigata e smangiata dall’acqua, la storia viene assorbita nelle fessure delle rocce carsiche, la storia deposita i suoi detriti come un fiume verso la foce. Come un fiume verso la foce, come ogni esistenza, individuale e collettiva – man mano procede verso la foce perde identità a favore di un sedimento – sentimento collettivo. In “un altro fiume”, il fiume come la vita unisce in sé razionale e irrazionale, la volontà e la casualità, prospettandoci che un altro equilibrio, un’altra via, un’altra vita, un altro fiume è sempre possibile senza rinunciare totalmente ad una delle due modalità iniziali. Una serie di immagini novecentesche, relative al corso del fiume Isonzo, sono state selezionate, riprodotte, sintetizzate in un veloce processo che rasenta l’astrazione e l’espressionismo, utilizzando inchiostri colorati. Nuovamente l’acqua del fiume e la natura rigogliosa che la circonda prendono in prestito i brillanti colori delle ecoline e la loro fluidità indomabile, per raccontarsi fondendo irrazionale e casualità a razionale e volontà dell’immagine fotografica in bianco e nero riportata a solvente su organza. La sovrapposizione tra immagine fotografica e acquerello lascia trapelare attraverso le strette maglie del ricordo e della memoria, delle quali è costituita ogni opera della serie, quanto ci sia di calcolato nel susseguirsi delle macchie di colore e di indeterminato del riporto a solvente. Ne “La terza sponda del fiume - Viaggio”, il fiume che ai suoi margini può essere vissuto come una barriera, può rivelarsi al suo interno come uno spazio nuovo. Uno spazio altro, emblema del viaggio e della vita. Il fiume diventa un altro luogo. Non più quindi solo le sue sponde, più o meno lontane tra loro, che separano due orizzonti, ma una nuova possibilità, un margine interno in continuo movimento. Da questa riflessione si sviluppano questa serie di assemblaggi, accompagnati da alcuni frammenti tratti dal racconto “La Terza Sponda del Fiume”, di João Guimarães Rosa: “Un giorno un uomo fece costruire una canoa che sembrava fatta apposta per durare a lungo. Terminata la canoa e salutata la famiglia, stupita del suo comportamento, l'uomo vi entrò e remando si allontanò dalla sponda. Lui non andò da nessuna parte. La sua sola intenzione era di restarsene in quegli spazi del fiume, costantemente nel mezzo, sempre dentro la canoa, per non saltarne fuori, mai più. Tutti intorno a lui si chiesero il perché di un tale comportamento: pazzia, contagio, o cos'altro? e come facesse a resistere. Certamente nessuno lo vide mai scendere dalla canoa, e ogni volta che qualcuno tentava di avvicinarlo, egli scompariva verso l'altra sponda. Passarono i mesi e gli anni, sua figlia si sposò, ebbe un bambino che fu portato sulla riva, l’uomo però non comparve. Sua moglie e i figli se ne andarono lontano da quel posto. Solo un figlio rimase, e più il tempo passava più si convinceva dell'idea di prendere il posto del vecchio padre là nel fiume. Andò sulla riva, aspettando il padre fino a quando egli apparve e gli gridò il suo intendimento. Quando il padre drizzò la prua verso di lui, felice, lo salutò. Ma il figlio terrorizzato, come se l'avesse visto venire dall'aldilà, fuggì correndo, allo stesso tempo chiedendo perdono. Ora, nell’avvicinarsi della morte spera anche lui di venir deposto in una canoa, in quest'acqua, che non si ferma, dalle lunghe sponde: e, io, fiume in giù, fiume fuori, fiume dentro – il fiume”. “Inventario memorie (in)stabili” trae ispirazione da una antica mappa di Gradisca, il cui toponimo, molto comune nella regione, ha origini slave e significa luogo fortificato e nella quale la cinta muraria e alcuni baluardi oggi scomparsi intorno l’attuale centro e la Fortezza, assumono la forma stilizzata di una navicella. Sulla traccia di questa forma stilizzata, contenente al suo interno le tracce degli altri edifici, si sovrappongono le memorie instabili di quegli stessi edifici contenuti, in un inventario che per questa ragione non potrà mai dirsi concluso e lascia spazio alle memorie future. Le mura ci dicono che la storia e la vita in generale, sono spesso caratterizzate da un eccessivo sentimento di difesa e che spesso esse stesse subiscono l’influsso negativo di questo eccesso, perché assorbite e consunte da questa ossessione. Fortezze e muraglie crescono soprattutto per cadere, abbattute o corrose; quando si ha il bisogno di innalzarle per proteggersi da una minaccia è già troppo tardi, vuol dire che la minaccia è già troppo forte per essere contenuta. Le case, i palazzi, le fortificazioni sono allo stesso tempo nave pericolante che chiede soccorso e arca che lo offre a chi teme di essere in pericolo. Infine in “Confini Labili”, confini reali e fittizi, che gli uomini, come in un gioco, nel corso della storia, hanno spostato, annullato, inventato; popoli che via via si sono trovati ad essere italiani, austriaci, jugoslavi, croati, sloveni, tutti sospinti dalla tragica volontà di definire identità sempre negate. I confini sono precari, ineludibili, necessari e vanitosi, si illudono di cambiare nomi e/o appartenenze di luoghi e di persone quando questi luoghi e persone non appartengono a nessuno, casomai sono i confini stessi ad appartenere a luoghi e persone, almeno per quel poco che si può appartenere a qualcosa o qualcuno. Citando ancora “Microcosmi” di Claudio Magris: “I confini chiedono spesso sacrifici di sangue, provocano morte (…). Forse l’unico modo per neutralizzare il potere letale dei confini è sentirsi e mettersi sempre dall’altra parte”. E ancora scrive Magris: “Necessità, febbre, maledizione del confine. Senza di esso non c’è identità né forma, non c’è esistenza; esso la crea e la munisce di inevitabili artigli”. Che cos’è un confine, come funziona, perché a un certo punto qualcuno decide di stabilire un confine arbitrario, artificiale, non direttamente legato alla presenza di confine naturale e infine come viene vissuto il confine? L’opera nasce per prendere coscienza dei confini ponendosi delle domande a partire da quei confini più semplici e vicini a ciascuno di noi. Confini, luoghi, spazi tra le cose, che mettendo in contatto separano e viceversa, persone, cose, privato, pubblico, culture, identità, natura e costruzioni umane dove l’uomo abita, lavora, si diverte e ama. In ciascuno di questi assemblaggi Federica ridisegna i confini sovrapponendo mediante la trasparenza materiale e virtuale più immagini. Rielaborazione che parte dai confini, dalla definizione e riconoscibilità della sua stessa identità. L’artista mette in discussione se stessa e soprattutto mette in discussione quel rapporto tra contenuto e contenitore, che ha caratterizzato da sempre il suo percorso. In un movimento che contraddistingue ogni sua ricerca, utilizza il dato, l’elemento autobiografico e intimo per permettere l’analisi generale del tema condiviso. Allo stesso modo ridisegna i luoghi e gli spazi abbattendo la linea di confine tra dentro e fuori, sopra e sotto, alto e basso, natura e artificio, vita e morte, materia e spirito. Edifici e costruzioni dell’uomo si fondono e confondono con la natura. Nascono paradossi, l’impossibile diventa visibile, facendo sorgere altri mondi dei quali dimenticare i confini, in un momento storico nel quale, invece, si vogliono costruire e ricostruire nuovi e vecchi confini.
Il progetto “Come un fiume (verso la foce)”, composto dall’installazione omonima e da altre quattro opere a parete, nasce all'interno della riflessione sui confini, che sta conducendo da circa quattro anni. L’artista ci accompagna in un percorso fluttuante, come la corrente di un fiume, un percorso nascosto, come un fiume carsico, fatto di sedimenti, transizioni, attraversamenti e germinazioni alla scoperta di particolari elementi del paesaggio naturale e costruito dall'uomo, luoghi che o la natura o gli uomini o le vicende della storia condivisa o personale hanno caricato di significato, luoghi che diventano simboli delle esistenze minime o grandi, dei destini, delle passioni, di tutte le vicende umane che li hanno segnati. Una stratificazione di storia/geografia come forma di ordine mentale, quasi cosmico, come strumento di definizione del reale e del mistero della vita e dell'anima. Protagonisti sono il fiume Isonzo, le onde, le anse, la sabbia, la terra coltivata, le pietre, le fortificazioni, le costruzioni dell’uomo, i palazzi di Gradisca e i confini, immagini e figure ricorrenti nella ricerca dell’artista. Ciascuno di questi protagonisti si rispecchia e si integra nella parabola di ogni esistenza umana – nella compresenza di presente e di passato, di effimero e di eterno, epifania dell'attimo e della memoria, ore fuggitive o secoli lontani, nel rapporto tra spazio e tempo, nella presenza, nell'assenza, nell'identità e la sua incertezza, nella chiusura e nella mescolanza, in confini tracciati e varcati, nel continuo attraversamento di confini d'ogni genere. Il confine caratterizza il percorso di Federica attuando una ricerca al limite tra le discipline delle arti visive. Ogni velo d’organza, fotografia a doppia esposizione o videoinstallazione, non sono semplici supporti, ma determinanti elementi che concorrono nella significazione dell’opera, imponendo uno slancio agli osservatori che vogliono scoprire cosa vi si cela dietro. Il lavoro di Federica permette una molteplice stratificazione di materiali e di interpretazioni. Ogni percorso interpretativo finisce per supporne un altro, così che non possa mai dirsi completamente esaurita la lettura. Il senso dell'opera d'arte, è nella stratificazione di trasparenze: la “densità” di un'opera deve consentire di intravedere quanto è oggetto della rappresentazione. Dovunque corrono confini che si oltrepassano senza accorgersene, che conducono ad un universo altro. Il mondo è tutto una frontiera che divide e unisce. In ogni traccia, in ogni velo, che compongono il percorso di “Come un fiume (verso la foce)” l’osservatore scopre il proprio volto, il senso o il filo della propria esistenza, del proprio labile e appassionato passaggio sulla terra. Il fiume, venerato come divinità fin dall’antichità, è per chi vi si rapporta, vita e morte, sostentamento e insidia. Il fiume Isonzo, presenza leggendaria, fonte d’ispirazione da sempre, è per poeti e scrittori, ricordo e riflessione anche in conseguenza di tutto ciò che il fiume ha rappresentato e rappresenta. L’Isonzo è stato teatro di battaglie dal 400 d.C. fino alla Prima guerra mondiale, durante la quale lungo le sue sponde ebbero luogo le maggiori operazioni militari sul fronte italiano e in particolare le sanguinose dodici battaglie dell'Isonzo, dove caddero oltre 300.000 tra italiani e austroungarici. Il fiume Isonzo raccoglie inevitabilmente le testimonianze della storia, della memoria europea. Nell’installazione l’acqua del fiume diventa un rivolo d’inchiostro di ecoline che dalla sorgente alla foce si snoda descrivendone ogni curva e deposito, mentre attraversa lo stesso spazio espositivo. Ne “La coscienza di Zeno”, Italo Svevo scrive: “Per raccogliermi meglio passai il pomeriggio del secondo giorno solitario alle rive dell’Isonzo. Non c'è miglior raccoglimento che stare a guardare l'acqua corrente. Si sta fermi e l'acqua corrente fornisce lo svago che occorre perché non è uguale a sé stessa nel colore e nel disegno neppure per un attimo”. Nella celebre poesia “I fiumi” scritta in trincea, durante la guerra, Giuseppe Ungaretti rievoca, con i propri ricordi personali, tutti i fiumi che ha conosciuto, simbolo delle diverse tappe della sua vita, ristabilimento grazie ad essi, un rapporto di armonia con il creato e con se stesso, che l’esperienza della guerra sembrava aver infranto. Nella prima parte della poesia il poeta descrive la condizione materiale ed emotiva in cui si trova, immerso nelle acque dell’Isonzo presso una dolina. Ungaretti descrive il suo stato d’animo di reduce dalla guerra, disteso nel letto del fiume Isonzo si sente come una reliquia, un frammento superstite – e pertanto maggiormente prezioso – di un resto mortale, si sente come uno dei sassi levigati su cui cammina con movenze d'acrobata, sotto il sole, il cui calore benefico riceve con la stessa familiarità di un beduino. Affidato alle mani amorevoli dell’Isonzo il poeta si riconosce parte dell’universo, cosciente che il suo rammarico è frutto sempre di una disarmonia con il creato. Le acque del fiume lo lavano e lo purificano e gli danno una rara innocente felicità. Citando “Microcosmi” di Claudio Magris, grande narratore delle terre orientali, delle frontiere, della contaminazione, dalla civiltà intesa come conoscenza e coesistenza: “Il fiume corrode e consuma il greto, la storia scava la roccia e scende sempre più giù, incide come una lama la sfera rugosa che ruota negli spazi; un bel giorno i tagli arriveranno al centro della terra e i pezzi del cocomero affettato se ne andranno ciascuno per conto suo. I detriti del tempo, che concimano le valli e i prati dove il pastore vive per mesi con le sue bestie, sono ossa antiche riconciliate nell'humus che le rimpasta” così come lo “scontrarsi, mescolarsi, distruggersi e sparire” delle genti che abitano lungo il corso del fiume stesso. Ogni endogamia è asfittica perché è la negazione stessa della vita, che è un porto di mare, o un fiume, non un recinto chiuso. Ogni identità è orribile, se per resistere deve tracciare un confine e respingere chi sta dall’altra parte. È comunque possibile essere attenti all’identità e ai valori di un luogo senza cadere in quella istintività campanilistica che oggi spesso rende ottusa e regressiva la riscoperta delle origini e delle etnie, perché l’identità stessa è un aggregato e ha poco senso scomporlo per arrivare ad una ipotetica unità di base. La storia viene levigata e smangiata dall’acqua, la storia viene assorbita nelle fessure delle rocce carsiche, la storia deposita i suoi detriti come un fiume verso la foce. Come un fiume verso la foce, come ogni esistenza, individuale e collettiva – man mano procede verso la foce perde identità a favore di un sedimento – sentimento collettivo. In “un altro fiume”, il fiume come la vita unisce in sé razionale e irrazionale, la volontà e la casualità, prospettandoci che un altro equilibrio, un’altra via, un’altra vita, un altro fiume è sempre possibile senza rinunciare totalmente ad una delle due modalità iniziali. Una serie di immagini novecentesche, relative al corso del fiume Isonzo, sono state selezionate, riprodotte, sintetizzate in un veloce processo che rasenta l’astrazione e l’espressionismo, utilizzando inchiostri colorati. Nuovamente l’acqua del fiume e la natura rigogliosa che la circonda prendono in prestito i brillanti colori delle ecoline e la loro fluidità indomabile, per raccontarsi fondendo irrazionale e casualità a razionale e volontà dell’immagine fotografica in bianco e nero riportata a solvente su organza. La sovrapposizione tra immagine fotografica e acquerello lascia trapelare attraverso le strette maglie del ricordo e della memoria, delle quali è costituita ogni opera della serie, quanto ci sia di calcolato nel susseguirsi delle macchie di colore e di indeterminato del riporto a solvente. Ne “La terza sponda del fiume - Viaggio”, il fiume che ai suoi margini può essere vissuto come una barriera, può rivelarsi al suo interno come uno spazio nuovo. Uno spazio altro, emblema del viaggio e della vita. Il fiume diventa un altro luogo. Non più quindi solo le sue sponde, più o meno lontane tra loro, che separano due orizzonti, ma una nuova possibilità, un margine interno in continuo movimento. Da questa riflessione si sviluppano questa serie di assemblaggi, accompagnati da alcuni frammenti tratti dal racconto “La Terza Sponda del Fiume”, di João Guimarães Rosa: “Un giorno un uomo fece costruire una canoa che sembrava fatta apposta per durare a lungo. Terminata la canoa e salutata la famiglia, stupita del suo comportamento, l'uomo vi entrò e remando si allontanò dalla sponda. Lui non andò da nessuna parte. La sua sola intenzione era di restarsene in quegli spazi del fiume, costantemente nel mezzo, sempre dentro la canoa, per non saltarne fuori, mai più. Tutti intorno a lui si chiesero il perché di un tale comportamento: pazzia, contagio, o cos'altro? e come facesse a resistere. Certamente nessuno lo vide mai scendere dalla canoa, e ogni volta che qualcuno tentava di avvicinarlo, egli scompariva verso l'altra sponda. Passarono i mesi e gli anni, sua figlia si sposò, ebbe un bambino che fu portato sulla riva, l’uomo però non comparve. Sua moglie e i figli se ne andarono lontano da quel posto. Solo un figlio rimase, e più il tempo passava più si convinceva dell'idea di prendere il posto del vecchio padre là nel fiume. Andò sulla riva, aspettando il padre fino a quando egli apparve e gli gridò il suo intendimento. Quando il padre drizzò la prua verso di lui, felice, lo salutò. Ma il figlio terrorizzato, come se l'avesse visto venire dall'aldilà, fuggì correndo, allo stesso tempo chiedendo perdono. Ora, nell’avvicinarsi della morte spera anche lui di venir deposto in una canoa, in quest'acqua, che non si ferma, dalle lunghe sponde: e, io, fiume in giù, fiume fuori, fiume dentro – il fiume”. “Inventario memorie (in)stabili” trae ispirazione da una antica mappa di Gradisca, il cui toponimo, molto comune nella regione, ha origini slave e significa luogo fortificato e nella quale la cinta muraria e alcuni baluardi oggi scomparsi intorno l’attuale centro e la Fortezza, assumono la forma stilizzata di una navicella. Sulla traccia di questa forma stilizzata, contenente al suo interno le tracce degli altri edifici, si sovrappongono le memorie instabili di quegli stessi edifici contenuti, in un inventario che per questa ragione non potrà mai dirsi concluso e lascia spazio alle memorie future. Le mura ci dicono che la storia e la vita in generale, sono spesso caratterizzate da un eccessivo sentimento di difesa e che spesso esse stesse subiscono l’influsso negativo di questo eccesso, perché assorbite e consunte da questa ossessione. Fortezze e muraglie crescono soprattutto per cadere, abbattute o corrose; quando si ha il bisogno di innalzarle per proteggersi da una minaccia è già troppo tardi, vuol dire che la minaccia è già troppo forte per essere contenuta. Le case, i palazzi, le fortificazioni sono allo stesso tempo nave pericolante che chiede soccorso e arca che lo offre a chi teme di essere in pericolo. Infine in “Confini Labili”, confini reali e fittizi, che gli uomini, come in un gioco, nel corso della storia, hanno spostato, annullato, inventato; popoli che via via si sono trovati ad essere italiani, austriaci, jugoslavi, croati, sloveni, tutti sospinti dalla tragica volontà di definire identità sempre negate. I confini sono precari, ineludibili, necessari e vanitosi, si illudono di cambiare nomi e/o appartenenze di luoghi e di persone quando questi luoghi e persone non appartengono a nessuno, casomai sono i confini stessi ad appartenere a luoghi e persone, almeno per quel poco che si può appartenere a qualcosa o qualcuno. Citando ancora “Microcosmi” di Claudio Magris: “I confini chiedono spesso sacrifici di sangue, provocano morte (…). Forse l’unico modo per neutralizzare il potere letale dei confini è sentirsi e mettersi sempre dall’altra parte”. E ancora scrive Magris: “Necessità, febbre, maledizione del confine. Senza di esso non c’è identità né forma, non c’è esistenza; esso la crea e la munisce di inevitabili artigli”. Che cos’è un confine, come funziona, perché a un certo punto qualcuno decide di stabilire un confine arbitrario, artificiale, non direttamente legato alla presenza di confine naturale e infine come viene vissuto il confine? L’opera nasce per prendere coscienza dei confini ponendosi delle domande a partire da quei confini più semplici e vicini a ciascuno di noi. Confini, luoghi, spazi tra le cose, che mettendo in contatto separano e viceversa, persone, cose, privato, pubblico, culture, identità, natura e costruzioni umane dove l’uomo abita, lavora, si diverte e ama. In ciascuno di questi assemblaggi Federica ridisegna i confini sovrapponendo mediante la trasparenza materiale e virtuale più immagini. Rielaborazione che parte dai confini, dalla definizione e riconoscibilità della sua stessa identità. L’artista mette in discussione se stessa e soprattutto mette in discussione quel rapporto tra contenuto e contenitore, che ha caratterizzato da sempre il suo percorso. In un movimento che contraddistingue ogni sua ricerca, utilizza il dato, l’elemento autobiografico e intimo per permettere l’analisi generale del tema condiviso. Allo stesso modo ridisegna i luoghi e gli spazi abbattendo la linea di confine tra dentro e fuori, sopra e sotto, alto e basso, natura e artificio, vita e morte, materia e spirito. Edifici e costruzioni dell’uomo si fondono e confondono con la natura. Nascono paradossi, l’impossibile diventa visibile, facendo sorgere altri mondi dei quali dimenticare i confini, in un momento storico nel quale, invece, si vogliono costruire e ricostruire nuovi e vecchi confini.