opera
Le madri snaturate
categoria | Installazione |
soggetto | Astratto, Bellezza, Figura umana |
tags | maternità, relazioni generazionali, ready made |
base | 190 cm |
altezza | 250 cm |
profondità | 60 cm |
anno | 2015 |
E un'installazione formata da una vecchia ghiacciaia in legno (con dentro quattro figure in porcellana di Capodimonte, una radice e una testa in terra cruda) e da una figura africana in legno scuro con la testa rifatta in cartapesta bianca come autoritratto, il tutto posto su una base fatta come uno scalino. E' stata presentata a due mostre : "Terra Madre-Donna Madre" (Sguardi Altrove) a cura di Stefania Scattina presso la Fabbrica del Vapore (Milano, 2015) e alla mostra "Il Giardino Segreto" presso la galleria Manifiesto Blanco a cura di Daniela Sacco (Milano, 2018).
Sul blog "ìLa Poesia e lo Spirito" ho tentato di raccontarla così:
" Un’installazione per “Le madri snaturate”
Una ghiacciaia e una scultura africana in legno scuro mi ricordano il difficile tema della generazione. Non è facile pensare alla maternità senza inciampare negli stereotipi dell’istinto materno e dei ruoli troppo rigidi.
Appena una madre non entra negli schemi – e quale madre sincera non scopre a volte in sé contraddizioni, frustrazioni e ambivalenza – viene tacciata di “madre snaturata”. In realtà in natura le madri degli animali sono molto libere e imprevedibili e a ben guardare se le osservate da vicino, non vi sono due gatte o due cagnoline che si comportino esattamente nello stesso modo con la prole.
Il “frigo”
In via Pastrengo due case più in là rispetto alla mia, svuotano le cantine, e in strada si accumula un ammasso di mobili nerastri, tra cui una cassettiera tutta tarlata che cade in polvere. Dato che sono curiosa apro i cassetti, nel primo trovo una serie di foto di famiglia – una trentina, alcune incorniciate - si vedono chiaramente le somiglianze tra i vari volti. Vicino al comò c’è una piccola ghiacciaia, l’antenato del frigorifero. È molto interessante perché a differenza di altre ghiacciaie che sono generalmente in legno grezzo o tinto, assomiglia enormemente ad un frigo vero e la sua parte esterna comunque in legno è dipinta nel color bianco panna e l’interno è rivestito di metallo azzurrino come i frigo della mia infanzia. Ma, non avendo il motore, è molto più leggera. Probabilmente sarà stata costruita quando già esistevano i primi refrigeratori elettrici ma non tutti se li potevano permettere e i venditori di ghiaccio passavano ancora coi loro gridi per le strade di Milano. Essendo sera, con un gesto rapido infilo le foto della cassettiera nella ghiacciaia e porto il tutto a casa, prima che passi il camioncino dei rifiuti ingombranti e per sicurezza li porto su al secondo piano.
L’indomani vedo che questa ghiacciaia ha anch’essa molti tarli, che la sua base è marcia per l’umidità della cantina, ma nella sua dimensione e nella sua umiltà ha qualcosa di carino e di commovente. La sua maniglia di apertura che funziona perfettamente sembra dirmi che si vuole impegnare nonostante qualche macchiolina di verderame. Ha anche una marca in bachelite applicata sul legno verniciato. In realtà, di macchioline ne ha ovunque sulla vernice esterna, create dai tarli e dalle mosche, sulle griglie interne, di ruggine, sulle maniglie come già detto. Strofino e pulisco, incero e turo i buchi, rifaccio in legno la base. Non sarà mai un oggetto d’antiquariato di quelli che si trovano nei negozi chic, ma comunque è presentabile.
Intanto avevo anche la “famiglia” delle foto, lo racconto a mia madre e lei - che in quel periodo stava componendo per ciascuno di noi figli dei piccoli album di foto di quando eravamo piccoli - mi ha detto: “dài, portami qui le foto della famiglia sconosciuta, anch’essa ha diritto a un piccolo album”!... e così le foto sono uscite materialmente dalla ghiacciaia, ma non del tutto, perché mi è venuto in mente di metterci dentro quelle piccole testoline di bambini in terracotta, ritrattini che facevo da anni per amici e parenti, teste tondeggianti come la frutta, voglia di conservazione dell’emozione. E questo era il primo progetto: ho quindi abbozzato una decina di teste in argilla ma poi a un certo punto da casa le ho portate nello studio e poi non le ho più trovate, quando ero a casa ero convinta che fossero nell’atelier e viceversa quand’ero là e non le vedevo mi veniva il dubbio di non aver guardato bene.
La donna nera
Alcuni mesi dopo il ritrovamento della ghiacciaia una mattina vicino ai bidoni del mio condominio ho scoperto un busto femminile di legno scuro su un’unica lunga gamba magra inserita in una base cilindrica: una scultura africana senza testa e con una gamba spezzata. Il corpo coraggiosamente inarcato in avanti poteva far pensare a una donna incinta. Ci si può commuovere per una ghiacciaia ma anche per una statua decapitata e naturalmente me la sono portata su in casa senza sapere cosa farne di preciso. Qualche giorno dopo ho trovato la gamba mancante usata come bastone per mescolare il Ducotone. Allora ho frugato invano in tutti i bidoni nella speranza di rinvenire la testa.
Questa storia mi ha molto turbata. Ho riparato la gamba con una vite e una piccola piastra di metallo lasciando anche parzialmente la pittura bianca ma ho dovuto costruire una testa. Dapprima ho cercato in libri e in rete di capire come avrebbe potuto essere quella testa africana ma non ho trovato nulla di soddisfacente, e a un certo punto ho creduto che l’unica testa possibile poteva essere la mia, in un materiale il più leggero ed effimero possibile, la carta. Una cartapesta leggera, bianca come le risme di carta da stampare, incollata con colla da parati, che avrebbe ricordato ma spero compensato, il Ducotone della gamba spezzata.
La donna guarda altrove
Questa donna ferita dunque si è accompagnata già dalla prima esposizione con la piccola ghiacciaia che non conteneva più né le foto della famiglia ignota né le testoline in argilla non ancora cotte e misteriosamente scomparse. La ghiacciaia mi sembrava in un certo senso una metafora di un utero materno. In quegli anni passavo quotidianamente in bicicletta davanti alle tre vetrine di un antiquario del centro città e ogni volta che avevo un po’ di tempo mi fermavo a guardare quelle vetrine. Un giorno sono entrata a chiedere il prezzo di quattro putti in porcellana bianca di Capodimonte. Erano un po’ troppo cari ma la settimana successiva erano ancora lì e allora li ho acquistati chiedendo di farmi un po’ di sconto. Questi quattro bambinelli ricciolini in pose un po’ leziose, formati con quella pasta “translucida, bianco opalescente, con invetriature sempre brillanti” come recita la descrizione di quelle porcellane napoletane, sembrano immagini cristallizzate del nostro passato. Cliché di candidi bimbi ideali. Li ho poggiati sulla griglia superiore della ghiacciaia, dove forse si metteva il ghiaccio.
Ma sotto, c’era ancora spazio per le verdure, per la natura, per qualcosa di meno algido. Ed ecco spuntare una radice trovata su una spiaggia del Lago Maggiore e nella radice mi è parso di dover inserire una testolina in argilla non cotta, in “terra cruda” come l’esigenza di un fragile ma imperioso germoglio che viene fuori d’impeto, in contrasto completo con le figurine di sopra ma pure un pargoletto, anzi, un pargoletto modellato da me, imperfetto ma mio.
E così su due diversi livelli come due scalini, ho esposto la ghiacciaia e la scultura nera con testa di carta bianca. Non poteva, la scultura, guardare verso il “frigo” perché ho pensato che questo fosse come una parte di lei, e che lei dovesse guardare altrove, scrutare l’orizzonte e magari meditare su tutte queste cose così difficili. Questa donna nera può sembrare una vera “madre snaturata” (1) che apparentemente non bada ai figli chiusi nel frigorifero ma chi siamo per giudicare?
nota 1) Giulia Niccolai, in occasione della seconda mostra presso la galleria Manifiesto Blanco di Milano (2018) aveva scritto: una “madre snaturata”, condizione tra le peggiori in assoluto. [...] da parte dell’autrice c’è già un istintivo senso di protezione per la madre “snaturata”, non c’è ombra di indignazione preconcetta, e infatti, nei suoi appunti scrive: “La terra non è una buona madre per tutti come le madri non sono per forza buone madri”. I bambinetti modello sono posti su un ripiano di cristallo, mentre al piano inferiore una testolina di terra cruda esce da una grossa radice come un bisogno impellente di crescita nella natura”. Mi pare estremamente generoso da parte di Kika, il fatto che, nell’opera, la sua attenzione sia rivolta alla speranza che il figlio di una madre “snaturata” riesca a trovare dentro di sé la forza di voler crescere per capire, senza essersi fatto rovinare irrimediabilmente da una madre incapace. È come se l’artista volesse farci capire che se una madre è effettivamente “snaturata”, lo è perché lei stessa ha avuto una tale madre, incapace d’amore, di disciplina e di positività.
Questo articolo è stato pubblicato in Arte, Kika Bohr, Scritture e taggato come arte contemporanea, installazioni, maternità, Mostre il 12/07/2020 [https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2020/07/12/uninstallazione-per-le-madri-snaturate/] da kikabohr
Sul blog "ìLa Poesia e lo Spirito" ho tentato di raccontarla così:
" Un’installazione per “Le madri snaturate”
Una ghiacciaia e una scultura africana in legno scuro mi ricordano il difficile tema della generazione. Non è facile pensare alla maternità senza inciampare negli stereotipi dell’istinto materno e dei ruoli troppo rigidi.
Appena una madre non entra negli schemi – e quale madre sincera non scopre a volte in sé contraddizioni, frustrazioni e ambivalenza – viene tacciata di “madre snaturata”. In realtà in natura le madri degli animali sono molto libere e imprevedibili e a ben guardare se le osservate da vicino, non vi sono due gatte o due cagnoline che si comportino esattamente nello stesso modo con la prole.
Il “frigo”
In via Pastrengo due case più in là rispetto alla mia, svuotano le cantine, e in strada si accumula un ammasso di mobili nerastri, tra cui una cassettiera tutta tarlata che cade in polvere. Dato che sono curiosa apro i cassetti, nel primo trovo una serie di foto di famiglia – una trentina, alcune incorniciate - si vedono chiaramente le somiglianze tra i vari volti. Vicino al comò c’è una piccola ghiacciaia, l’antenato del frigorifero. È molto interessante perché a differenza di altre ghiacciaie che sono generalmente in legno grezzo o tinto, assomiglia enormemente ad un frigo vero e la sua parte esterna comunque in legno è dipinta nel color bianco panna e l’interno è rivestito di metallo azzurrino come i frigo della mia infanzia. Ma, non avendo il motore, è molto più leggera. Probabilmente sarà stata costruita quando già esistevano i primi refrigeratori elettrici ma non tutti se li potevano permettere e i venditori di ghiaccio passavano ancora coi loro gridi per le strade di Milano. Essendo sera, con un gesto rapido infilo le foto della cassettiera nella ghiacciaia e porto il tutto a casa, prima che passi il camioncino dei rifiuti ingombranti e per sicurezza li porto su al secondo piano.
L’indomani vedo che questa ghiacciaia ha anch’essa molti tarli, che la sua base è marcia per l’umidità della cantina, ma nella sua dimensione e nella sua umiltà ha qualcosa di carino e di commovente. La sua maniglia di apertura che funziona perfettamente sembra dirmi che si vuole impegnare nonostante qualche macchiolina di verderame. Ha anche una marca in bachelite applicata sul legno verniciato. In realtà, di macchioline ne ha ovunque sulla vernice esterna, create dai tarli e dalle mosche, sulle griglie interne, di ruggine, sulle maniglie come già detto. Strofino e pulisco, incero e turo i buchi, rifaccio in legno la base. Non sarà mai un oggetto d’antiquariato di quelli che si trovano nei negozi chic, ma comunque è presentabile.
Intanto avevo anche la “famiglia” delle foto, lo racconto a mia madre e lei - che in quel periodo stava componendo per ciascuno di noi figli dei piccoli album di foto di quando eravamo piccoli - mi ha detto: “dài, portami qui le foto della famiglia sconosciuta, anch’essa ha diritto a un piccolo album”!... e così le foto sono uscite materialmente dalla ghiacciaia, ma non del tutto, perché mi è venuto in mente di metterci dentro quelle piccole testoline di bambini in terracotta, ritrattini che facevo da anni per amici e parenti, teste tondeggianti come la frutta, voglia di conservazione dell’emozione. E questo era il primo progetto: ho quindi abbozzato una decina di teste in argilla ma poi a un certo punto da casa le ho portate nello studio e poi non le ho più trovate, quando ero a casa ero convinta che fossero nell’atelier e viceversa quand’ero là e non le vedevo mi veniva il dubbio di non aver guardato bene.
La donna nera
Alcuni mesi dopo il ritrovamento della ghiacciaia una mattina vicino ai bidoni del mio condominio ho scoperto un busto femminile di legno scuro su un’unica lunga gamba magra inserita in una base cilindrica: una scultura africana senza testa e con una gamba spezzata. Il corpo coraggiosamente inarcato in avanti poteva far pensare a una donna incinta. Ci si può commuovere per una ghiacciaia ma anche per una statua decapitata e naturalmente me la sono portata su in casa senza sapere cosa farne di preciso. Qualche giorno dopo ho trovato la gamba mancante usata come bastone per mescolare il Ducotone. Allora ho frugato invano in tutti i bidoni nella speranza di rinvenire la testa.
Questa storia mi ha molto turbata. Ho riparato la gamba con una vite e una piccola piastra di metallo lasciando anche parzialmente la pittura bianca ma ho dovuto costruire una testa. Dapprima ho cercato in libri e in rete di capire come avrebbe potuto essere quella testa africana ma non ho trovato nulla di soddisfacente, e a un certo punto ho creduto che l’unica testa possibile poteva essere la mia, in un materiale il più leggero ed effimero possibile, la carta. Una cartapesta leggera, bianca come le risme di carta da stampare, incollata con colla da parati, che avrebbe ricordato ma spero compensato, il Ducotone della gamba spezzata.
La donna guarda altrove
Questa donna ferita dunque si è accompagnata già dalla prima esposizione con la piccola ghiacciaia che non conteneva più né le foto della famiglia ignota né le testoline in argilla non ancora cotte e misteriosamente scomparse. La ghiacciaia mi sembrava in un certo senso una metafora di un utero materno. In quegli anni passavo quotidianamente in bicicletta davanti alle tre vetrine di un antiquario del centro città e ogni volta che avevo un po’ di tempo mi fermavo a guardare quelle vetrine. Un giorno sono entrata a chiedere il prezzo di quattro putti in porcellana bianca di Capodimonte. Erano un po’ troppo cari ma la settimana successiva erano ancora lì e allora li ho acquistati chiedendo di farmi un po’ di sconto. Questi quattro bambinelli ricciolini in pose un po’ leziose, formati con quella pasta “translucida, bianco opalescente, con invetriature sempre brillanti” come recita la descrizione di quelle porcellane napoletane, sembrano immagini cristallizzate del nostro passato. Cliché di candidi bimbi ideali. Li ho poggiati sulla griglia superiore della ghiacciaia, dove forse si metteva il ghiaccio.
Ma sotto, c’era ancora spazio per le verdure, per la natura, per qualcosa di meno algido. Ed ecco spuntare una radice trovata su una spiaggia del Lago Maggiore e nella radice mi è parso di dover inserire una testolina in argilla non cotta, in “terra cruda” come l’esigenza di un fragile ma imperioso germoglio che viene fuori d’impeto, in contrasto completo con le figurine di sopra ma pure un pargoletto, anzi, un pargoletto modellato da me, imperfetto ma mio.
E così su due diversi livelli come due scalini, ho esposto la ghiacciaia e la scultura nera con testa di carta bianca. Non poteva, la scultura, guardare verso il “frigo” perché ho pensato che questo fosse come una parte di lei, e che lei dovesse guardare altrove, scrutare l’orizzonte e magari meditare su tutte queste cose così difficili. Questa donna nera può sembrare una vera “madre snaturata” (1) che apparentemente non bada ai figli chiusi nel frigorifero ma chi siamo per giudicare?
nota 1) Giulia Niccolai, in occasione della seconda mostra presso la galleria Manifiesto Blanco di Milano (2018) aveva scritto: una “madre snaturata”, condizione tra le peggiori in assoluto. [...] da parte dell’autrice c’è già un istintivo senso di protezione per la madre “snaturata”, non c’è ombra di indignazione preconcetta, e infatti, nei suoi appunti scrive: “La terra non è una buona madre per tutti come le madri non sono per forza buone madri”. I bambinetti modello sono posti su un ripiano di cristallo, mentre al piano inferiore una testolina di terra cruda esce da una grossa radice come un bisogno impellente di crescita nella natura”. Mi pare estremamente generoso da parte di Kika, il fatto che, nell’opera, la sua attenzione sia rivolta alla speranza che il figlio di una madre “snaturata” riesca a trovare dentro di sé la forza di voler crescere per capire, senza essersi fatto rovinare irrimediabilmente da una madre incapace. È come se l’artista volesse farci capire che se una madre è effettivamente “snaturata”, lo è perché lei stessa ha avuto una tale madre, incapace d’amore, di disciplina e di positività.
Questo articolo è stato pubblicato in Arte, Kika Bohr, Scritture e taggato come arte contemporanea, installazioni, maternità, Mostre il 12/07/2020 [https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2020/07/12/uninstallazione-per-le-madri-snaturate/] da kikabohr