opera
LIMES
categoria | Installazione |
soggetto | Architettura, Politico/Sociale |
tags | |
base | 240 cm |
altezza | 300 cm |
profondità | 300 cm |
anno | 2020 |
LIMES (2021) Proposta di Progetto per la XIV Biennale dell’Avana
Artista: Pietro Campagnoli (Torino, 1994)
Curatori: Ana Gabriela Ballate Benavides e Yadira de Armas Rodríguez
Scheda dati
Titolo: Limes
Artista: Pietro Campagnoli
Anno: 2020 - 2021
Descrizione dell’opera: Installazione composta da tre strutture modulari costruite con “pallet” di legno riciclato.
Fondamenti del progetto:
Indagare sui processi sociali, sulla memoria storica e recente da scenari di esclusione, alterità, territori al limite che discutono di crisi contemporanee, è diventato un meccanismo di analisi e interrogazione verso concetti e categorie attuali che non solo ci fanno tornare indietro e ripensare il passato, ma anche il nostro presente con una prospettiva sul futuro.
I conflitti armati attuali e storici in Europa hanno portato con sé lo sfollamento umano e, con esso, la settorizzazione di una popolazione che ha trovato, per il momento, destino nei campi profughi.
Diverse organizzazioni umanitarie hanno creato le condizioni per prestare aiuto alle persone e alle famiglie, offrendo loro, per quanto possibile, soluzioni di abitabilità dignitose.
In termini teorici, la Royal Spanish Academy definisce i campi profughi come “insediamenti temporanei costruiti per accogliere la popolazione di rifugiati”. Tuttavia, sebbene queste soluzioni siano proposte con carattere provvisorio, in molte occasioni finiscono per diventare spazi abitativi praticamente permanenti per queste persone. Questa quasi-permanenza di questo tipo di accampamenti finisce per portare i suoi abitanti ad appropriarsi dello spazio, riconvertirlo, modificarlo in termini urbanistici, architettonici e culturali.
Riconsiderare i rapporti di potere e le esperienze sociali tra gli esseri umani dalla contemporaneità costituisce, in questo senso, uno dei catalizzatori del progetto che presentiamo come proposta alla XIV Edizione della Biennale dell’Avana, che si collega con i presupposti teorici e concettuali di esso. L’artista italiano Pietro Campagnoli (Torino, 1994) dalla sua esperienza di volontariato, all’inizio del 2020, nel campo profughi di Moria, nella città di Lesbo (Grecia), concepisce l’opera “Limes” (2020-2021), con cui propone un particolare approccio alla precarietà architettonica che caratterizza questi contesti, e cerca di generare, dall’arte, una piattaforma di riflessione su nozioni sociologiche e culturali.
Il coinvolgimento diretto dell’artista in questo scenario lo ha portato ad assumere una posizione attiva al suo interno, permettendogli di affrontare dal suo lavoro i modi di vita degli esseri contemporanei in uno stato di eccezione e in territori di confine. In questo modo “Limes” propone un approccio critico e analitico alla complessa catena di relazioni che si instaura tra l’habitat come quell’insieme di fattori che permettono lo sviluppo degli individui, e l’architettura come modo per concretizzarli, i modi di abitare che le persone hanno e la vita come risultato di questi vari elementi.
“All’inizio del 2020 ho partecipato come volontaria in una ONG dove ho svolto un gruppo di laboratori di pittura con i bambini del campo profughi di Moria, che è il campo profughi più grande d’Europa. A quel tempo vi vivevano circa 14.000 rifugiati, più di 10.000 nel campo illegale. Ed è che di fatto i campi dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e il governo greco non possono accoglierli tutti, quindi, questo significa che un gruppo considerevole è costretto a sopravvivere da solo”.
“Limes” è un’opera composta dalla riproduzione in scala 1:1 di tre case, a imitazione delle abitazioni dei profughi del campo di Moria, e costruite con i “pallet”, materiale specifico e preziosissimo nella realizzazione di questi “case” temporanee. In questo senso, Pietro espone con il suo lavoro che sebbene la casa, nella maggior parte delle nostre culture sia intesa come un rifugio solido e permanente, sia patrimoniale che luogo sicuro, questi concetti sono diluiti nella realtà del rifugiato campi, dove la precarietà urbana e architettonica imita la fragilità, l’impermanenza, l’instabilità e l’effimero.
In “Limes” Pietro Campagnoli riconsidera il minimalismo delle “sue” strutture, la casa primordiale, il contatto diretto con il suolo che esse scoprono e la fase quasi primaria della civiltà umana, come necessità e conseguenza, piuttosto che come concatenazione di fasi di sviluppo.
Tuttavia, la rivisitazione di questo autore, quasi ex-professo, ad alcuni dei presupposti concettuali ed estetici di una parte dell’Arte Povera manifestatasi in artisti come Mario Merz, parte, in questo caso particolare, da quell’interesse a generare una riflessione critica sulla le condizioni esistenziali del soggetto contemporaneo, basate sulla comprensione e lo sviluppo di un legame intrinseco tra arte e vita. Una riflessione in cui sottende un interrogarsi etico, esistenziale, politico e sociale; una critica alla società dei consumi, al capitalismo che finisce per escludere questi individui in quelle zone di eccezione emarginate e violente. Ed è che come afferma giustamente l’artista dopo il suo soggiorno a Moria: “queste persone vivono in una condizione precaria dove il nucleo emotivo si spezza e si disperde, perdendo la loro identità culturale”.
Pietro Campagnoli, in un esercizio semantico e metaforico, riutilizza gli elementi fragili e poveri che danno vita agli spazi abitativi dei profughi di Moria; ricicla i materiali che rimangono a disposizione di questi individui, che finiscono per configurare la loro immaginazione visiva in uno spazio caotico.
Frammenti di coperte, materiali di recupero configurano strutture che, nella loro semplicità, mettono in discussione questa paradossale realtà, ponendo al tempo stesso davanti ai nostri occhi la necessità di recuperare una visione del mondo che non sia predeterminata dal nostro bagaglio di civiltà e metterci di fronte al significato profondo di esperienze umane essenziali come il costruire e l’abitare.
“(...) la casa non è vissuta come un luogo di sicurezza, ma come un luogo transitorio... un luogo pericoloso, un luogo che ti può uccidere (...) erano pallet usati che venivano riciclati dai migranti; costruivano qualsiasi cosa con loro e mi davano quell’impressione delle sculture di igloo di vetro di Mario Merz...”
Il lavoro si propone di effettuare una critica delle forme architettoniche e urbane idealizzate dall’Occidente, così come delle pratiche spaziali e delle forme di abitabilità coloniali globali. Il modo in cui occupiamo lo spazio, come ce ne appropriamo e come riconvertiamo la nostra identità culturale basata sull’habitat e sul vivere nel mondo disuguale in cui viviamo oggi, sono altri elementi che l’opera sovraespone. Con “Limes”, Pietro Campagnoli progetta un’irruzione nel contesto e nei suoi processi, intendendo l’arte come spazio sconsacrato e dilatato all’esperienza estetica e sociale.
“(...) Il confinamento attuato in conseguenza della pandemia globale causata dal Covid-19, che ci ha isolati nelle nostre case, mi ha portato a riflettere su come il senso di casa sia una costruzione protettiva inscindibile per la nostra salute mentale e identità culturale, e come ci siano realtà in cui essa è del tutto assente e, anzi, come diventi paradossalmente dannosa (...)
“Limes”, il nome che dà il titolo all’opera, è anche un riferimento diretto al termine con cui erano conosciuti i confini dell’Impero Romano e i cui limiti erano segnati da grandi mura per difendersi dalle invasioni barbariche. In questo caso, l’opera mette in discussione non solo i limiti visibili e invisibili, ma ripropone anche le contraddizioni fisiche e visive tra la sua funzione pratica e la sua vera impermanenza.
Ed è che Moria non è solo un campo profughi da usare; il valore simbolico di questo spazio va ben oltre la sua stessa struttura e funzionalità. Moria è stata la concretizzazione dei conflitti politici, del dibattito di interessi economici e geografici tra la Turchia e l’Unione Europea che grava sulle spalle di ciascuno degli sfollati provenienti da paesi come l’Afghanistan, la Siria, la Repubblica del Congo o Iraq, che finiscono su questo sito, data l’incapacità e la mancanza di una risposta coerente da parte dei governi, mentre prevalgono interessi economici e radicati pensieri colonialisti.
Sono queste le domande che Pietro Campagnoli propone per lo scenario multiculturale e problematizzante che costituisce la Biennale dell’Avana, attraverso la sua installazione “Limes”. Un’opportunità per decentrare le prospettive e affrontare le complesse realtà di questi territori emarginati, dove l’arte diventa una piattaforma per la trasformazione e la visibilità dei fenomeni contemporanei nelle nostre civiltà.
(...) “Spero attraverso l’arte di dare maggiore consapevolezza della situazione di certe realtà, e attraverso la scultura di poter far toccare con mano a chi visita l’installazione. Penso che la visione tangibile delle case sia molto più evocativa delle semplici fotografie”.
Artista: Pietro Campagnoli (Torino, 1994)
Curatori: Ana Gabriela Ballate Benavides e Yadira de Armas Rodríguez
Scheda dati
Titolo: Limes
Artista: Pietro Campagnoli
Anno: 2020 - 2021
Descrizione dell’opera: Installazione composta da tre strutture modulari costruite con “pallet” di legno riciclato.
Fondamenti del progetto:
Indagare sui processi sociali, sulla memoria storica e recente da scenari di esclusione, alterità, territori al limite che discutono di crisi contemporanee, è diventato un meccanismo di analisi e interrogazione verso concetti e categorie attuali che non solo ci fanno tornare indietro e ripensare il passato, ma anche il nostro presente con una prospettiva sul futuro.
I conflitti armati attuali e storici in Europa hanno portato con sé lo sfollamento umano e, con esso, la settorizzazione di una popolazione che ha trovato, per il momento, destino nei campi profughi.
Diverse organizzazioni umanitarie hanno creato le condizioni per prestare aiuto alle persone e alle famiglie, offrendo loro, per quanto possibile, soluzioni di abitabilità dignitose.
In termini teorici, la Royal Spanish Academy definisce i campi profughi come “insediamenti temporanei costruiti per accogliere la popolazione di rifugiati”. Tuttavia, sebbene queste soluzioni siano proposte con carattere provvisorio, in molte occasioni finiscono per diventare spazi abitativi praticamente permanenti per queste persone. Questa quasi-permanenza di questo tipo di accampamenti finisce per portare i suoi abitanti ad appropriarsi dello spazio, riconvertirlo, modificarlo in termini urbanistici, architettonici e culturali.
Riconsiderare i rapporti di potere e le esperienze sociali tra gli esseri umani dalla contemporaneità costituisce, in questo senso, uno dei catalizzatori del progetto che presentiamo come proposta alla XIV Edizione della Biennale dell’Avana, che si collega con i presupposti teorici e concettuali di esso. L’artista italiano Pietro Campagnoli (Torino, 1994) dalla sua esperienza di volontariato, all’inizio del 2020, nel campo profughi di Moria, nella città di Lesbo (Grecia), concepisce l’opera “Limes” (2020-2021), con cui propone un particolare approccio alla precarietà architettonica che caratterizza questi contesti, e cerca di generare, dall’arte, una piattaforma di riflessione su nozioni sociologiche e culturali.
Il coinvolgimento diretto dell’artista in questo scenario lo ha portato ad assumere una posizione attiva al suo interno, permettendogli di affrontare dal suo lavoro i modi di vita degli esseri contemporanei in uno stato di eccezione e in territori di confine. In questo modo “Limes” propone un approccio critico e analitico alla complessa catena di relazioni che si instaura tra l’habitat come quell’insieme di fattori che permettono lo sviluppo degli individui, e l’architettura come modo per concretizzarli, i modi di abitare che le persone hanno e la vita come risultato di questi vari elementi.
“All’inizio del 2020 ho partecipato come volontaria in una ONG dove ho svolto un gruppo di laboratori di pittura con i bambini del campo profughi di Moria, che è il campo profughi più grande d’Europa. A quel tempo vi vivevano circa 14.000 rifugiati, più di 10.000 nel campo illegale. Ed è che di fatto i campi dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e il governo greco non possono accoglierli tutti, quindi, questo significa che un gruppo considerevole è costretto a sopravvivere da solo”.
“Limes” è un’opera composta dalla riproduzione in scala 1:1 di tre case, a imitazione delle abitazioni dei profughi del campo di Moria, e costruite con i “pallet”, materiale specifico e preziosissimo nella realizzazione di questi “case” temporanee. In questo senso, Pietro espone con il suo lavoro che sebbene la casa, nella maggior parte delle nostre culture sia intesa come un rifugio solido e permanente, sia patrimoniale che luogo sicuro, questi concetti sono diluiti nella realtà del rifugiato campi, dove la precarietà urbana e architettonica imita la fragilità, l’impermanenza, l’instabilità e l’effimero.
In “Limes” Pietro Campagnoli riconsidera il minimalismo delle “sue” strutture, la casa primordiale, il contatto diretto con il suolo che esse scoprono e la fase quasi primaria della civiltà umana, come necessità e conseguenza, piuttosto che come concatenazione di fasi di sviluppo.
Tuttavia, la rivisitazione di questo autore, quasi ex-professo, ad alcuni dei presupposti concettuali ed estetici di una parte dell’Arte Povera manifestatasi in artisti come Mario Merz, parte, in questo caso particolare, da quell’interesse a generare una riflessione critica sulla le condizioni esistenziali del soggetto contemporaneo, basate sulla comprensione e lo sviluppo di un legame intrinseco tra arte e vita. Una riflessione in cui sottende un interrogarsi etico, esistenziale, politico e sociale; una critica alla società dei consumi, al capitalismo che finisce per escludere questi individui in quelle zone di eccezione emarginate e violente. Ed è che come afferma giustamente l’artista dopo il suo soggiorno a Moria: “queste persone vivono in una condizione precaria dove il nucleo emotivo si spezza e si disperde, perdendo la loro identità culturale”.
Pietro Campagnoli, in un esercizio semantico e metaforico, riutilizza gli elementi fragili e poveri che danno vita agli spazi abitativi dei profughi di Moria; ricicla i materiali che rimangono a disposizione di questi individui, che finiscono per configurare la loro immaginazione visiva in uno spazio caotico.
Frammenti di coperte, materiali di recupero configurano strutture che, nella loro semplicità, mettono in discussione questa paradossale realtà, ponendo al tempo stesso davanti ai nostri occhi la necessità di recuperare una visione del mondo che non sia predeterminata dal nostro bagaglio di civiltà e metterci di fronte al significato profondo di esperienze umane essenziali come il costruire e l’abitare.
“(...) la casa non è vissuta come un luogo di sicurezza, ma come un luogo transitorio... un luogo pericoloso, un luogo che ti può uccidere (...) erano pallet usati che venivano riciclati dai migranti; costruivano qualsiasi cosa con loro e mi davano quell’impressione delle sculture di igloo di vetro di Mario Merz...”
Il lavoro si propone di effettuare una critica delle forme architettoniche e urbane idealizzate dall’Occidente, così come delle pratiche spaziali e delle forme di abitabilità coloniali globali. Il modo in cui occupiamo lo spazio, come ce ne appropriamo e come riconvertiamo la nostra identità culturale basata sull’habitat e sul vivere nel mondo disuguale in cui viviamo oggi, sono altri elementi che l’opera sovraespone. Con “Limes”, Pietro Campagnoli progetta un’irruzione nel contesto e nei suoi processi, intendendo l’arte come spazio sconsacrato e dilatato all’esperienza estetica e sociale.
“(...) Il confinamento attuato in conseguenza della pandemia globale causata dal Covid-19, che ci ha isolati nelle nostre case, mi ha portato a riflettere su come il senso di casa sia una costruzione protettiva inscindibile per la nostra salute mentale e identità culturale, e come ci siano realtà in cui essa è del tutto assente e, anzi, come diventi paradossalmente dannosa (...)
“Limes”, il nome che dà il titolo all’opera, è anche un riferimento diretto al termine con cui erano conosciuti i confini dell’Impero Romano e i cui limiti erano segnati da grandi mura per difendersi dalle invasioni barbariche. In questo caso, l’opera mette in discussione non solo i limiti visibili e invisibili, ma ripropone anche le contraddizioni fisiche e visive tra la sua funzione pratica e la sua vera impermanenza.
Ed è che Moria non è solo un campo profughi da usare; il valore simbolico di questo spazio va ben oltre la sua stessa struttura e funzionalità. Moria è stata la concretizzazione dei conflitti politici, del dibattito di interessi economici e geografici tra la Turchia e l’Unione Europea che grava sulle spalle di ciascuno degli sfollati provenienti da paesi come l’Afghanistan, la Siria, la Repubblica del Congo o Iraq, che finiscono su questo sito, data l’incapacità e la mancanza di una risposta coerente da parte dei governi, mentre prevalgono interessi economici e radicati pensieri colonialisti.
Sono queste le domande che Pietro Campagnoli propone per lo scenario multiculturale e problematizzante che costituisce la Biennale dell’Avana, attraverso la sua installazione “Limes”. Un’opportunità per decentrare le prospettive e affrontare le complesse realtà di questi territori emarginati, dove l’arte diventa una piattaforma per la trasformazione e la visibilità dei fenomeni contemporanei nelle nostre civiltà.
(...) “Spero attraverso l’arte di dare maggiore consapevolezza della situazione di certe realtà, e attraverso la scultura di poter far toccare con mano a chi visita l’installazione. Penso che la visione tangibile delle case sia molto più evocativa delle semplici fotografie”.