COSMIC WHORE
Siamo costantemente avvolti nella passività dell’immaginario; il flusso delle immagini nella nostra società è così invasivo da annichilire persino le nostre memorie più prossime, per fare spazio a sempre nuove sollecitazioni sensoriali. È come se percettivamente si regredisse ad una fase orale, alimentandosi, come il perverso polimorfo freudiano, con una suzione incessante delle immagini in una continua e superficiale erotizzazione dei sensi. Siamo preda di una passività passionale, di una dualità che è la natura stessa di Eros, il quale brama incessantemente ma mai giunge a possedere la realtà, come quando il desiderio di un bene porta con sé un male (Plotino).
Platone individuava però due forme di questa “mania” (ispirazione divina) con una alta e una bassa, l’una derivante da malattia umana, l’altra da esaltazione divina; allo stesso modo possiamo distinguere un’ immaginazione passiva, che cerca l’illusione dell’immortalità attraverso la perpetua generazione di immagini esterne e un’immaginazione attiva, che ha il potere di creare essa stessa le forme, attingendo alle immagini archetipiche custodite nelle profondità del nostro essere.
Eros può animalizzarsi, diventare puro istinto, o trascendere; la sua potenza si può affermare o trasformare, la stessa pulsione, sublimata, acquista una potenziale valenza metafisica; il fine è il trascendimento della stessa condizione umana, in una effettiva rigenerazione, in un mutamento dello status ontologico (Evola).
Allo stesso modo l’ipertrofismo dell’immagine, allontanandosi dall’essenzialità del simbolo, produce l’immagine-idolo, che nella sua finitezza e autoreferenzialità, chiede solo di essere adorata, che sia un vitello d’oro o una squalo in formaldeide. Quando invece il simbolo diventa materiale dello spirito e non mera materia sensibile, raggiunge il suo scopo, è qualcosa che sta per qualcos’altro, rivela una realtà superiore: è la potenza dell’immagine-icona, che chiede invece di essere venerata, perché, come scrive Pavel Florenskij, l’icona ha lo scopo di sollevare la coscienza al mondo spirituale, di mostrare spettacoli misteriosi e soprannaturali. Attraverso l’icona l’invisibile si rende manifesto e il visibile viene trasfigurato, in noi il velo del visibile per un istante si squarcia e attraverso ad esso…l’invisibile soffia un alito che non è di quaggiù…l’icona è la porta regale che mette in comunicazione i due mondi.
Accedere all’immaginazione come vera facoltà creatrice non è dato per pura ispirazione… sbaglia e induce in errore l’artista che col pretesto dell’arte ci offre tutto ciò che in lui affiora quando è preso dalla sua ispirazione…a noi occorrono i suoi sogni antelucani… a noi occorre ciò che l’immaginazione restituisce quando ci si avventura sulla soglia tra il mondo sensibile e quello sovrasensibile.
È un percorso disseminato di trappole seduttive, siamo a metà fra la dimensione del tempo-spazio e il mondo angelico e alla soglia di questo mondo è il massimo dell’inganno e della seduzione… le immagini abbagliatrici sono suscitate dalla passione, ma il pericolo non è nella passione, ma nella valutazione di essa, nel suo scambiarsi per qualcosa di direttamente opposto a ciò che di fatto è… Bisogna tenere a freno la propria anima per impedire che, ammaliata dal piacere, prenda direzioni appaganti che la allontanino dalla vera conoscenza. È quello che nella lingua degli asceti ortodossi si chiama prelest, l’abbaglio spirituale, tra le condizioni più terribili in cui l’uomo può cadere; in questo terreno di mezzo c’è da lottare perché, come scriveva André Breton, “L’imagination n’est pas don, mais par excellence objet de conquête.”
Mentre alcuni artisti rielaborano fantasticamente i contenuti coscienziali che traggono dalla realtà, con risultati a volte sorprendenti, altri, con non poca sofferenza, indagano l’origine archetipica di questi contenuti, in un allontanamento dalla realtà che è solo apparente.
È in questa direzione che si muove il lavoro di Pierre-Yves Le Duc; abbandonato il colore delle prime opere giovanili, con l’installazione Cenacolo nel 1994, è come se egli stabilisse un nuovo punto di inizio, come se un archetipo gli si fosse rivelato. Sulle tredici tele esposte in circolo attorno ad un monumento di una piazza di Napoli un segno nero si ripete con minime variazioni: una vagina rovesciata non immediatamente percepibile, il cui triangolo del pube rimanda ad un vulcano in eruzione o ad un angelo, che si libra in alto per staccarsi faticosamente dalla materia grezza.
Quale sia stato il fuoco iniziale che ha attivato questo processo è un segreto intimo e forse inconscio dell’artista, ma Le Duc, come un alchimista, usa la sostanza fissa, il simbolo sessuale e la sua potenza attrattiva, per condensare su di sé le influenze volatili: per attuare la trasformazione della libido psichica in libido creativa e cognitiva.
Come in un’alchemica Nigredo, Le Duc inizia il suo percorso intimo di conoscenza; decide di entrare nella zona di morte illuminata dalla luna, per poter successivamente sperimentare la rinascita, perché colui che vuole entrare nel regno divino, deve prima entrare nel corpo di sua madre, e morirci (Paracelso). È il luogo dove risiede la dea lunare luminosa, la cui altra faccia è però la dea nera abissale, la Mater Tenebrarum; siamo nel punto di contatto tra le emozioni inferiori del mondo superiore e quelle superiori del mondo inferiore, siamo in presenza di una porta duale che può condurre nel dominio della vita o in quello della morte.
Questo regressus ad uterum, che Le Duc ritualizza anche nel quotidiano, ritirandosi a lavorare nel suo studio sotterraneo nel ventre di Napoli, è individuabile anche nella maniacale esecuzione delle sue tele. I multipli diversi di Pierre-Yves Le Duc rimandano al prototipo, riprodotti quasi a simulare una tecnica industriale; sono invece il risultato di un lavoro accuratissimo, in cui la ripetizione diversa dei tratti assorbe il suo autore, che non chiede altro di dissolversi lentamente in essi. È una fatica che si ha difficoltà a percepire immediatamente, tale è la determinazione a voler rimuovere ogni memoria dell’esecuzione, quasi come se si trattasse di far sparire le tracce di un crimine.
Nell’ultima installazione di Pyerre-Yves Le Duc, Kosmic Whore, a differenza delle precedenti rappresentazioni, dove il simbolo erotico è fortemente contrastato sul fondo, una velatura di lino e una preparazione accuratissima del bianco di base rendono lattiginosa la superficie delle tele. Sembra, come scriveva Genet riferendosi ai disegni di Giacometti, che i tratti esistano solo per dare forma e spessore ai bianchi…non è il tratto a essere pieno, ma il bianco. Ciò che prima era assenza, l’invisibile, si manifesta e rimanda continuamente al visibile, con un doppio movimento di contrazione-espansione, cielo-terra, spirito-materia.
Le ventiquattro grandi tele sospese nel vuoto conformano lo spazio e si snodano nella sala in penombra in una ripetizione del segno che è solo apparente. Attivati casualmente al passaggio dei visitatori nei raggi di sei fotocellule, lampi abbaglianti colpiscono in successione ogni tela per 1/24 di secondo; un improvviso movimento, ma nulla si muove, currens sine cursu et movens sine motu. È la luce bianca dell’Albedo, la scintilla che proviene dal centro ardente della terra, dove dimora l’Archaeus, il servitore della natura, chiamato anche Vulcano da Paracelso. È in questo centro che avviene la coniunctio tra il maschile e il femminile, dove spiritualmente prende forma l’ermafrodito: l’androgine che si libra in volo nel pieno dello sviluppo spirituale, in cui conscio e inconscio sono tutt’uno.
I potenti flash dei proiettori colgono di sorpresa: è l’elemento umano che (per caso?) trasmette l’impulso che innesca in rapidissima sequenza le sorgenti luminose. È come se si liberassero particelle di luce prigioniere nella materia oscura, scintille che brillano nella nera sostanza arcana, che squarciano momentaneamente il velo dell’illusione. Questa potente visione è solo un attimo, si deve essere pronti a cogliere il fremito di luce bianca, bisogna essere vigili; il nostro corpo sottile sperimenta un’alterazione, una frattura nel suo normale stato di coscienza, ma é necessario uno sforzo costante, quotidiano, per sviluppare le nostre reali possibilità di autodeterminazione in quanto uomini.
Non è la donna in sé che Le Duc rappresenta, ma il principio femminile che è in tutti noi, quell’aspetto della nostra natura che tende a radicarsi nel dominio biologico, a farsi istinto. Come nel rito iniziatico del Mahavrata, dove un asceta si congiunge carnalmente con una prostituta, che rappresenta il suo stesso femminile nell’aspetto demonico, così l’artista si confronta con la carnalità del segno e la sua doppia natura di pericolo e possibilità. La capacità ricettiva, di cui l’organo sessuale femminile è un simbolo, sembra non avere fine nell’uomo del terzo millennio; per soddisfare continuamente istinti più che reali bisogni, egli corre il rischio di morire spiritualmente, di dissolversi nella liquida voluttà dell’immaginario contemporaneo.
Mimmo Ambrosino
-24 tele di 180x220 cm sospese (a circa 1,5 mt dal suolo) in sequenza nello spazio, con una distanza di circa due metri tra ogni tela, grazie a cavi in nylon e disposte secondo una sinuoside spaziale.
-24 segni erotici che raffigurano dettagli anatomici ingigantiti, come sottratti al bianco, immersi nella penombra di un limbo nero.
Tecnica: acrilico su tela cotone con velo di lino
Supporto: Tela
progetti
Cosmic whore
categoria | Mostra |
location | Roma (Lazio - Italia) |
deadline | 20 Mag 2021 |
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