Il pittore sa incastrare una bocca su qualsiasi cosa. Queste bocche, si sa, non avranno mai la capacità di raccontare davvero una storia: loro sanno solo mangiare. E mangiano tutto loro e difatti, i quadri devono assicurare un assoluto rimedio alla cellulite degli spettatori.
Con una specie di attenta passività, il pittore deve riassumere una trama in una frase, se non in una parola. In un quadro, la composizione di un’immagine corrisponde al canovaccio della storia.
Per quanto mi riguarda le storie sono sempre le stesse: la partita di calcio nella cantina maledetta che trasformò tutti i calciatori in prosciutti; i vecchioni che trovarono il tesoro misterioso di Krasnojarsk. Ma in un equilibrio liquido, quando l’atmosfera viene evocata, stratificata in messe in scena alla prima - senza lasciare vuoti a fine giornata, perché nella realtà ciò è impossibile - i personaggi possono solo galleggiare e i gesti vengono troncati in moncherini. Non è questione fotografica: mi occupo di cultura occidentale e della rapidità. Nell’immediatezza, il patto tra il pittore e chiunque altro non si concilia con una stretta di mano, ma con una matassa di fili, con lo sversamento degli intenti. Le parole sono importanti: do i titoli ai miei lavori come un pubblicitario di materiale fraudolento - un angelo custode, per una ragazza nata nel 1996. Nella rete, nell’isolamento, possiamo non avere esigenze naturali corporali, possiamo essere asettici, e il distaccamento che deriva dall’asetticità ha del sacro. Ma vediamo in realtà come il materiale visivo del tipo ipnotico stia crescendo senza misura e nel mio lavoro questa consapevolezza detta le regole allegoriche del casting: ci sono pesci, denti, punture, scoperte adolescenziali.
Da quando sono nata San Sebastiano viene punto, non trafitto. Tutto è reiterazione tra l’onomatopeico e la verosimiglianza. Pere, seni e piccioni; lance, aghi, scale, gambe e zanzare. Un dialogo esiste soltanto tramite una condivisione. La pittura non rappresenta: presenta e basta, mettendo nelle condizioni di vivere senza capire. Al tempo stesso non temo, creando un’immagine riconoscibile, di svanire nel significato.
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Silvia Capuzzo è nata a Merano l’8 novembre 1996. Studia dal 2016 all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Nel 2019 viene selezionata al XIV Premio Nazionale delle Arti e partecipa alla mostra PNA/FISAD2 alla Pinacoteca Albertina di Torino.
Sempre nel 2019 partecipa alla mostra Surprize al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro vincendo il primo premio.
Con una specie di attenta passività, il pittore deve riassumere una trama in una frase, se non in una parola. In un quadro, la composizione di un’immagine corrisponde al canovaccio della storia.
Per quanto mi riguarda le storie sono sempre le stesse: la partita di calcio nella cantina maledetta che trasformò tutti i calciatori in prosciutti; i vecchioni che trovarono il tesoro misterioso di Krasnojarsk. Ma in un equilibrio liquido, quando l’atmosfera viene evocata, stratificata in messe in scena alla prima - senza lasciare vuoti a fine giornata, perché nella realtà ciò è impossibile - i personaggi possono solo galleggiare e i gesti vengono troncati in moncherini. Non è questione fotografica: mi occupo di cultura occidentale e della rapidità. Nell’immediatezza, il patto tra il pittore e chiunque altro non si concilia con una stretta di mano, ma con una matassa di fili, con lo sversamento degli intenti. Le parole sono importanti: do i titoli ai miei lavori come un pubblicitario di materiale fraudolento - un angelo custode, per una ragazza nata nel 1996. Nella rete, nell’isolamento, possiamo non avere esigenze naturali corporali, possiamo essere asettici, e il distaccamento che deriva dall’asetticità ha del sacro. Ma vediamo in realtà come il materiale visivo del tipo ipnotico stia crescendo senza misura e nel mio lavoro questa consapevolezza detta le regole allegoriche del casting: ci sono pesci, denti, punture, scoperte adolescenziali.
Da quando sono nata San Sebastiano viene punto, non trafitto. Tutto è reiterazione tra l’onomatopeico e la verosimiglianza. Pere, seni e piccioni; lance, aghi, scale, gambe e zanzare. Un dialogo esiste soltanto tramite una condivisione. La pittura non rappresenta: presenta e basta, mettendo nelle condizioni di vivere senza capire. Al tempo stesso non temo, creando un’immagine riconoscibile, di svanire nel significato.
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Silvia Capuzzo è nata a Merano l’8 novembre 1996. Studia dal 2016 all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Nel 2019 viene selezionata al XIV Premio Nazionale delle Arti e partecipa alla mostra PNA/FISAD2 alla Pinacoteca Albertina di Torino.
Sempre nel 2019 partecipa alla mostra Surprize al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro vincendo il primo premio.