opera
è questo che sognavo da bambino? (part.II)
categoria | Installazione |
soggetto | Viaggi, Politico/Sociale, Paesaggio |
tags | |
base | 100 cm |
altezza | 320 cm |
profondità | 100 cm |
anno | 2023 |
È questo che sognavo da bambino? (part II), 2023
Paniere, pane siciliano, corda, ventilatore
Dimensioni variabili
Tiratura 3
È questo che sognavo da bambino? (part II), 2023
Stampa digitale su carta Fine Art, trittico
13 x 18 cm cad.
Tiratura 10 + 2AP
Un paniere scende lento dal balcone di una casa, in risposta al grido dal basso di un uomo o una donna: “Cala
u panaru!”. Scende e sale il pane caldo come un piccolo miracolo custodito in un cesto di rami intrecciati.
Consumato il pane, tutti scompaiono, nessun vociare tra i cortili condominiali, nessun rumore di pentole e
cassetti dalle cucine. Resta il silenzio, il paniere di briciole che oscilla per una corrente d’aria o un vento da
chissàdove, venti moderati dai quadranti nord occidentali, il Maestrale, lo Scirocco. È questo che sognavi da
bambino, Fabrice?
L’immagine del tipico panaru siciliano, cristallizzata dall’artista in questa seconda parte di un più ampio
progetto dedicato al recupero delle proprie radici italiane, è una cartolina nostalgica di un viaggio a ritroso
dalla Ginevra a Catania. Il paniere, che l’artista lascia pieno e sospeso nel vuoto, evoca abitudini, rituali e
necessità che ad oggi sopravvivono nelle comunità del Sud Italia e del Mediterraneo come pratiche ancora in
atto o, in qualche caso, come souvenir turistici. Tra i rami e le fibre del cesto, frutto di una cura e di un sapere
artigiano, Fabrice Bernasconi ripercorre la storia di un mestiere tradizionale e antico quale quello dei canestrai
e, con pochi altri elementi – il pane della sua terra, una leggera brezza – suggerisce una precisa dimensione
geografica e antropologica, la sradica e poi la porta con sé. Il risultato è ironico e insieme poetico: come in un
sogno di cui resta soltanto un ricordo mosso, l’artista crea una visione sintetica, che possa rintracciare e
ricostruire l’esperienza vissuta. Quei venti che scuotono panieri e panni stesi, allora, soffiano da un semplice
ventilatore. In questo necessario confronto tra tecnologia e artigianalità, gli elementi dell’opera stridono
parlando due lingue diverse. Richiamando un oggetto folclorico e i simboli di una cultura locale, l’opera mette
in gioco, provocatoriamente, certe dinamiche dello sguardo e della sua fascinazione per l’altrove. Si torna nel
proprio luogo natale e dopo anni e lo si riscopre attraverso piccoli gesti quotidiani o oggetti che avevamo
dimenticato. Si va per paesi prima sconosciuti, con la fame di coglierne la verità più essenziale che solo la vita
quotidiana riesce a rivelare, affascinati da forme del sacro che non ci appartengono. Così la dimensione
puramente contemplativa dell’opera genera una forma di spaesamento che non potrebbe trovare
corrispondenza migliore di questi versi del peota Giorgio Caproni (da Il muro della Terra, 1975):
Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull’incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l’avevo lasciato.
Decontestualizzando e defunzionalizzando il simbolo e la sua storia, l’artista crea dunque un’immagine
residua: alla fine del giorno e alla fine del sogno, restano come avanzi o come fantasmi i ricordi, le vite degli
altri, il tempo lungo di gesti reiterati, sempre uguali. E da questi residui l’artista compone un sistema simbolico
immediato ed essenziale, ma complesso: il pane che nessuno ha consumato è la terra e il suo grano, è morte,
fede, superstizione, nutrimento e fame, è il susseguirsi delle stagioni, è la semina, ai primordi della cultura e
della τέχνη, nel senso più profondo della mano che produce e mette in opera quanto appreso dall’esperienza
del mondo. È questo che sognavi da bambino, Fabrice? Anche questo, e tanto basta.
Ilaria Monti, 2023
Paniere, pane siciliano, corda, ventilatore
Dimensioni variabili
Tiratura 3
È questo che sognavo da bambino? (part II), 2023
Stampa digitale su carta Fine Art, trittico
13 x 18 cm cad.
Tiratura 10 + 2AP
Un paniere scende lento dal balcone di una casa, in risposta al grido dal basso di un uomo o una donna: “Cala
u panaru!”. Scende e sale il pane caldo come un piccolo miracolo custodito in un cesto di rami intrecciati.
Consumato il pane, tutti scompaiono, nessun vociare tra i cortili condominiali, nessun rumore di pentole e
cassetti dalle cucine. Resta il silenzio, il paniere di briciole che oscilla per una corrente d’aria o un vento da
chissàdove, venti moderati dai quadranti nord occidentali, il Maestrale, lo Scirocco. È questo che sognavi da
bambino, Fabrice?
L’immagine del tipico panaru siciliano, cristallizzata dall’artista in questa seconda parte di un più ampio
progetto dedicato al recupero delle proprie radici italiane, è una cartolina nostalgica di un viaggio a ritroso
dalla Ginevra a Catania. Il paniere, che l’artista lascia pieno e sospeso nel vuoto, evoca abitudini, rituali e
necessità che ad oggi sopravvivono nelle comunità del Sud Italia e del Mediterraneo come pratiche ancora in
atto o, in qualche caso, come souvenir turistici. Tra i rami e le fibre del cesto, frutto di una cura e di un sapere
artigiano, Fabrice Bernasconi ripercorre la storia di un mestiere tradizionale e antico quale quello dei canestrai
e, con pochi altri elementi – il pane della sua terra, una leggera brezza – suggerisce una precisa dimensione
geografica e antropologica, la sradica e poi la porta con sé. Il risultato è ironico e insieme poetico: come in un
sogno di cui resta soltanto un ricordo mosso, l’artista crea una visione sintetica, che possa rintracciare e
ricostruire l’esperienza vissuta. Quei venti che scuotono panieri e panni stesi, allora, soffiano da un semplice
ventilatore. In questo necessario confronto tra tecnologia e artigianalità, gli elementi dell’opera stridono
parlando due lingue diverse. Richiamando un oggetto folclorico e i simboli di una cultura locale, l’opera mette
in gioco, provocatoriamente, certe dinamiche dello sguardo e della sua fascinazione per l’altrove. Si torna nel
proprio luogo natale e dopo anni e lo si riscopre attraverso piccoli gesti quotidiani o oggetti che avevamo
dimenticato. Si va per paesi prima sconosciuti, con la fame di coglierne la verità più essenziale che solo la vita
quotidiana riesce a rivelare, affascinati da forme del sacro che non ci appartengono. Così la dimensione
puramente contemplativa dell’opera genera una forma di spaesamento che non potrebbe trovare
corrispondenza migliore di questi versi del peota Giorgio Caproni (da Il muro della Terra, 1975):
Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull’incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l’avevo lasciato.
Decontestualizzando e defunzionalizzando il simbolo e la sua storia, l’artista crea dunque un’immagine
residua: alla fine del giorno e alla fine del sogno, restano come avanzi o come fantasmi i ricordi, le vite degli
altri, il tempo lungo di gesti reiterati, sempre uguali. E da questi residui l’artista compone un sistema simbolico
immediato ed essenziale, ma complesso: il pane che nessuno ha consumato è la terra e il suo grano, è morte,
fede, superstizione, nutrimento e fame, è il susseguirsi delle stagioni, è la semina, ai primordi della cultura e
della τέχνη, nel senso più profondo della mano che produce e mette in opera quanto appreso dall’esperienza
del mondo. È questo che sognavi da bambino, Fabrice? Anche questo, e tanto basta.
Ilaria Monti, 2023