opera
Donner à voir: Studio per un figlio #1
categoria | Altro |
soggetto | Politico/Sociale, Figura umana |
tags | micro-storie, trans-umano, guerra, identità, ricostruzione, corpo, Figlio della storia |
base | 65 cm |
altezza | 80 cm |
profondità | 65 cm |
anno | 2018 |
Lana, tovaglia di cerata, rasoi, didò, filo di ferro, lacci, filo da cucire, sacchetti di plastica,
alluminio, ferro, schermo di televisione, materiali vari.
Fili di lana che legano e ricoprono; fili di ferro, dai vari diametri, suturano: una tovaglia di cerata dal motivo floreale neo-folk è bloccata a una struttura cilindrica di alluminio, barre e griglie; su di esse sono annodati plexiglas e vetro dello schermo di un televisore ai cristalli liquidi fratturato. Una lama da piastrelle di un flessibile, decorata a gouache e pastello, rasoi, didò, componenti di circuiti elettronici, un filo da cucire verde acqua che tiene assieme, con una fasciatura nevrotica, sacchetti azzurri che a loro volta ricoprono forme di plastica e metalli. Lamiera, acciaio, un grembiulino di lino anni ’60, bottoni, il ritaglio di un quotidiano arabo da un vecchio viaggio, formine per dolci, mollette, laccetti di cotone. Ricordi, tenuti assieme fragilmente sul confine tra memoria e non vissuto.
Una culla o una gabbia, un corpo a sé, grottesco, o un corpo imprigionato in un presente fatto di scarti e resti? Chi è il vero autore di questo tentativo di rappresentarsi? Il potere di un processo di re-immaginazione critica. Studio per un figlio #1 è una mappa che dà vita a un corpo ambiguo: una non-identità fatta di oggetti domestici e quotidiani, segni, carne post-famiglia e post-storia. Studio per un figlio #1 ha i suoi giocattoli e le proprie memorie: stampini da cucina a forma di cuore e di smile ricoperti di lana, robottini da guerra stampati in resina, creati riparando con la plastilina un vecchio giocattolo rotto, soldatini in didò, animati su un porta timbri rotante o che decorano la torta, sempre in didò, del suo 7° compleanno. Studio per un figlio #1 è figlio della storia, una figura wolsiana (di Wolfgang Schulze detto Wols) post bellica, assemblata dai resti dell’esplosione o dell’implosione del ricordo e delle strutture familiari che sono figlie di più ampie strutture storico-egemoniche. L’opera è parte di un racconto di una condizione limite tra appartenenza e disorientamento, indotta da sistemi sociali normativizzati e desoggettivanti, e caratterizzata dall’alienazione rispetto ai grandi processi storici. È un immagine della ricerca del sé.
Studio per un figlio #1 prende spazio al centro della mostra Donner à voir in Fondazione Pini, a Milano. È il punto di arrivo di un processo narrativo che parte dalla storia di G. Staccioli.
Alla fine degli anni Quaranta, G. Staccioli si trovava in prigione per un crimine sconosciuto. Staccioli commutò la pena arruolandosi nella Legione Straniera a Marsiglia: andò così a combattere in Indocina (1946-1954). Di lui non si sa più nulla. Rimangono soltanto alcuni documenti ingialliti conservati in un archivio della Legione Straniera ad Aubagne, un certificato di morte, il cognome Staccioli – che mio padre ha ereditato, per cavilli burocratici, senza essere consanguineo del defunto (Staccioli è ora anche il mio cognome) –, un rullino fotografico. Le immagini appaiono ormai completamente cancellate, il contenuto irriconoscibile. Dal vuoto creato dalle immagini logorate nasce un processo re-immaginativo dove la storia si imbatte nella famiglia e la famiglia smaschera le sue facoltà gerarchiche e coercitive che fagocitano il tempo di generazione in generazione.
alluminio, ferro, schermo di televisione, materiali vari.
Fili di lana che legano e ricoprono; fili di ferro, dai vari diametri, suturano: una tovaglia di cerata dal motivo floreale neo-folk è bloccata a una struttura cilindrica di alluminio, barre e griglie; su di esse sono annodati plexiglas e vetro dello schermo di un televisore ai cristalli liquidi fratturato. Una lama da piastrelle di un flessibile, decorata a gouache e pastello, rasoi, didò, componenti di circuiti elettronici, un filo da cucire verde acqua che tiene assieme, con una fasciatura nevrotica, sacchetti azzurri che a loro volta ricoprono forme di plastica e metalli. Lamiera, acciaio, un grembiulino di lino anni ’60, bottoni, il ritaglio di un quotidiano arabo da un vecchio viaggio, formine per dolci, mollette, laccetti di cotone. Ricordi, tenuti assieme fragilmente sul confine tra memoria e non vissuto.
Una culla o una gabbia, un corpo a sé, grottesco, o un corpo imprigionato in un presente fatto di scarti e resti? Chi è il vero autore di questo tentativo di rappresentarsi? Il potere di un processo di re-immaginazione critica. Studio per un figlio #1 è una mappa che dà vita a un corpo ambiguo: una non-identità fatta di oggetti domestici e quotidiani, segni, carne post-famiglia e post-storia. Studio per un figlio #1 ha i suoi giocattoli e le proprie memorie: stampini da cucina a forma di cuore e di smile ricoperti di lana, robottini da guerra stampati in resina, creati riparando con la plastilina un vecchio giocattolo rotto, soldatini in didò, animati su un porta timbri rotante o che decorano la torta, sempre in didò, del suo 7° compleanno. Studio per un figlio #1 è figlio della storia, una figura wolsiana (di Wolfgang Schulze detto Wols) post bellica, assemblata dai resti dell’esplosione o dell’implosione del ricordo e delle strutture familiari che sono figlie di più ampie strutture storico-egemoniche. L’opera è parte di un racconto di una condizione limite tra appartenenza e disorientamento, indotta da sistemi sociali normativizzati e desoggettivanti, e caratterizzata dall’alienazione rispetto ai grandi processi storici. È un immagine della ricerca del sé.
Studio per un figlio #1 prende spazio al centro della mostra Donner à voir in Fondazione Pini, a Milano. È il punto di arrivo di un processo narrativo che parte dalla storia di G. Staccioli.
Alla fine degli anni Quaranta, G. Staccioli si trovava in prigione per un crimine sconosciuto. Staccioli commutò la pena arruolandosi nella Legione Straniera a Marsiglia: andò così a combattere in Indocina (1946-1954). Di lui non si sa più nulla. Rimangono soltanto alcuni documenti ingialliti conservati in un archivio della Legione Straniera ad Aubagne, un certificato di morte, il cognome Staccioli – che mio padre ha ereditato, per cavilli burocratici, senza essere consanguineo del defunto (Staccioli è ora anche il mio cognome) –, un rullino fotografico. Le immagini appaiono ormai completamente cancellate, il contenuto irriconoscibile. Dal vuoto creato dalle immagini logorate nasce un processo re-immaginativo dove la storia si imbatte nella famiglia e la famiglia smaschera le sue facoltà gerarchiche e coercitive che fagocitano il tempo di generazione in generazione.