i 7 piccoli suicidi

opera
i 7 piccoli suicidi
i 7 piccoli suicidi
categoria Scultura
soggetto Astratto
tags
base 10 cm
altezza 17 cm
profondità 8 cm
anno 2008
Colori accesi, superfici lucenti, forme goffe e gesti che rimandano a uno stile comico.
Non ci aspetteremmo certo una simile rappresentazione della morte. Infatti, in questi suicidi c’è soprattutto la vita. Quella di Andrea Marazzi e in fondo, di tutti noi.

La prima bozza di un impiccato è inserita in un elenco di progetti del 2008, con la scritta: “tanti modi di ammazzarsi in modo ridicolo”. Quando Andrea l’ha tratteggiata, probabilmente non sapeva fino a che punto traducesse la sua storia di bambino incompreso. Da piccolo si sentiva diverso, comunicava con le immagini più che con le parole. Più della voce, usava le mani e spesso gli altri faticavano a capirlo. Tutto il suo mondo passava attraverso dita piccole e agili, che queste statue non hanno. Il palmo grande e informe rappresenta una difficoltà di comunicare che va oltre la vicenda personale. Ognuno di noi fatica a esprimere i propri disagi. Per vergogna, convinzione di dover nascondere le fragilità per affermarsi nella società, bisogno di ottenere la considerazione e l’approvazione altrui. Spesso annunciamo grandi gesta, sogniamo di raggiungere un obiettivo, poi tutto si sgonfia e torniamo al quotidiano, anche quando è insoddisfacente o folle, perché non abbiamo creduto nel valore delle nostre crepe. Eppure magari l’avevamo ascoltata, Anthem di Leonard Cohen. Lui ci ha messo dieci anni per scriverla e trovare quel verso “c’è una crepa in ogni cosa: è così che entra la luce”.
Alcune statuette, le crepe ce le hanno disegnate addosso. In ogni momento di crisi nascono nuove opportunità. É proprio questo che vuol dire, in greco, “crisi”: “discernimento, separazione, ma anche punto di svolta”. Ci è capitato di perdere. Una sfida, un’occasione, qualcosa o qualcuno che amavamo. Abbiamo pensato “non mi importa più di niente” e l’unico sollievo magari lo abbiamo provato specchiandoci in persone che avevano passato gli stessi guai, che potevano capirci. Queste statue chiedono aiuto e attenzione senza strumenti efficaci, con il linguaggio di un bambino che vuole esprimersi ma non viene ascoltato e, al fallimento dell’ultimo tentativo, prova a togliersi la vita.
Con strumenti banali, giocattoli, quasi non fosse nulla di pericoloso, cercando di farsi meno male possibile.
Per questo suscitano quasi tenerezza, con quel loro corpo flaccido e senza sesso, impotente di fronte a una realtà confusa e priva di carattere. La testa è piccola, non è cresciuta, non capisce che l’attenzione si conquista in altro modo, che non sono gli altri a determinare il nostro valore, che in fondo nessuno potrà salvarci, se non noi stessi. La comprensione di chi è altro da noi funziona solo se siamo disposti ad accettarci, ad accogliere il nostro dolore, a stare con lui e viverlo, senza scappare.
Se le statuette che hanno i fiori disegnati addosso, capissero di essere loro stesse dei fiori, forse rinuncerebbero al suicidio. Ogni pianta ha tutto per stare in piedi da sola. Radici affondate nel terreno, linfa che le scorre dentro. Può orientare i rami da una parte o dall’altra, a seconda delle condizioni in cui cresce. Viene sferzata dal vento, si piega, si rialza senza cadere. É quando si appoggia troppo a sostegni esterni e diventa un tutt’uno con il suo muretto, che può rischiare di morire, può voler rinunciare a vivere, se il muretto si rompe o viene abbattuto. Anche noi siamo così, aggrappati alle nostre dipendenze. Al successo, al denaro, a un amore malato. Il vuoto che si crea quando ci viene tolto, o quando proviamo a liberarci fa troppo male e non ci fidiamo più della nostra linfa, vogliamo spezzarci il gambo. La statuetta che si sdraia a terra su binari più piccoli di lei, guarda il cielo a cercare le stelle e non vede che magari ce le ha addosso.
Non è un tabù il suicidio, molti di noi ci hanno pensato. Per fuggire da un dolore troppo forte, dalla sensazione di non essere fatti per questo mondo, in cui invece siamo chiamati a vivere. Vita e morte. Non c’è una senza l’altra. Sono indissolubilmente legate, nell’esistenza e nell’arte. E’ quest’ultima che trova il modo di esorcizzare il sonno eterno, dalla catarsi delle tragedie greche, dalla filosofia del “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” o da molto prima. La forma delle statuette ricorda vagamente la Venere di Villendorf di 22mila anni fa, che ha sempre colpito Andrea per la sua simbolica accoglienza. “Vorrei che queste statuette suscitassero, in chi le osserva, voglia di prendersene cura” -mi ha detto il loro papà Marazzi – “capacità di perdonarsi, se sbaglia a comunicare, di prestare più attenzione alle persone che ha intorno, perché forse anche loro stanno chiedendo ascolto. E vorrei che magari strappassero una risata, per esorcizzare la paura della morte”. Allora forse, tornando al primo schizzo, nel nome del progetto c’era una parola falsa, che il bambino che non sapeva usare le parole ha sbagliato a scrivere.
Non sono ridicoli i modi in cui le statuette si suicidano. Darsi fuoco, farsi esplodere, è accendersi alla vita e lasciare che il mondo accolga la nostra più intima essenza. E’ prendere il dolore, il panico, la rabbia e tuffarsi, come la
statuetta con il sasso al collo. Per capire che non era così difficile lanciarsi, ringraziare anche il dolore e nascere di nuovo.
artista
andrea marazzi
Artista, Roma
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