opera
In sea we trust
categoria | Installazione |
soggetto | Politico/Sociale, Natura, Figura umana |
tags | morte; migrazione; terra; problemi |
base | 100 cm |
altezza | 20 cm |
profondità | 100 cm |
anno | 2022 |
L'opera dalla struttura circolare – allusione alla forma del mondo e alla dimensione globale dei problemi migratori - è collocata su un basso rialzo. Per vederla è necessario chinarsi: il gesto assume anche il senso di una forma di rispetto e di pietas.
L'installazione si presenta come una sorta di isola non di terra ma d'acqua, un sistema apparentemente chiuso e perfetto ma gravido di implicazioni, come già pare prefigurare la struttura stessa della "base" così poco adatta a costruire un sistema pienamente ordinato.
Dei fili di lana simulano un mare tumultuoso e accolgono, anzi avviluppano, riprendendo l'ambivalenza del mare, una serie di scatolette di pesce aperte al cui interno giacciono adagiate delle persone. Le scatolette sembrano luccicanti e seducenti perle ma sono invece scrigni di morte, impudicamente aperti e visibili, sirene abbaglianti di una soluzione facile che facile non è, né può essere, a un problema complesso.
Ogni scatoletta-casa-imbarcazione contiene al suo interno un numero variabile di persone, vittime di altrettante tragedie nel mar Mediterraneo - ricordate sul retro di ogni contenitore, dove è indicata la data di un naufragio con il relativo bilancio di morti e dispersi -, che il mare ora calmo ci restituisce alla vista.
Nell'opera le scatolette sono Case interiori, non più individuali ma collettive e terminali di esseri umani che hanno affidato i loro sogni e progetti a una pericolosa traversata via mare perdendo la vita.
Sono anche però contenitori che di nuovo sanno di mare perché al mare sono idealmente tornati: un richiamo al passato, al presente e al futuro, al cibo-pesce che contenevano e che inevitabilmente ha mangiato i corpi di coloro che hanno perso la vita in mare, pesci che arriveranno poi sulle nostre tavole di uomini che mangeranno altri uomini.
L'installazione si presenta come una sorta di isola non di terra ma d'acqua, un sistema apparentemente chiuso e perfetto ma gravido di implicazioni, come già pare prefigurare la struttura stessa della "base" così poco adatta a costruire un sistema pienamente ordinato.
Dei fili di lana simulano un mare tumultuoso e accolgono, anzi avviluppano, riprendendo l'ambivalenza del mare, una serie di scatolette di pesce aperte al cui interno giacciono adagiate delle persone. Le scatolette sembrano luccicanti e seducenti perle ma sono invece scrigni di morte, impudicamente aperti e visibili, sirene abbaglianti di una soluzione facile che facile non è, né può essere, a un problema complesso.
Ogni scatoletta-casa-imbarcazione contiene al suo interno un numero variabile di persone, vittime di altrettante tragedie nel mar Mediterraneo - ricordate sul retro di ogni contenitore, dove è indicata la data di un naufragio con il relativo bilancio di morti e dispersi -, che il mare ora calmo ci restituisce alla vista.
Nell'opera le scatolette sono Case interiori, non più individuali ma collettive e terminali di esseri umani che hanno affidato i loro sogni e progetti a una pericolosa traversata via mare perdendo la vita.
Sono anche però contenitori che di nuovo sanno di mare perché al mare sono idealmente tornati: un richiamo al passato, al presente e al futuro, al cibo-pesce che contenevano e che inevitabilmente ha mangiato i corpi di coloro che hanno perso la vita in mare, pesci che arriveranno poi sulle nostre tavole di uomini che mangeranno altri uomini.