opera
Where silence hesitates
| categoria | Pittura |
| soggetto | Architettura, Astratto, Figura umana |
| tags | architettura, interiorità, gabbia, varco, metallo, acciaio, scuro, marrone, nero, terra, pelle, dentro di noi, architecture, interiority, cage, metal, steel, shades, black, brown, skin, inside us |
| base | 60 cm |
| altezza | 80 cm |
| profondità | 2 cm |
| anno | 2025 |
olio, tempera, acciaio su tela
La pittura si fa varco, la materia si fa simbolo.
Al centro della composizione, l’acciaio rettangolare, freddo e tagliente, campeggia come una
gabbia mentale: uno spazio chiuso, razionalizzato, costruito con logiche estranee all’individuo.
Non è una prigione reale, ma un’architettura interiore, invisibile eppure potentemente presente.
È la rappresentazione di una condizione esistenziale che appartiene al nostro tempo: quella
dell’alienazione sociale, del senso di inadeguatezza, del distacco da sé e dagli altri.
Tuttavia, questa gabbia non è intatta. Qualcosa l’ha incrinata, spezzata. La rottura non è violenta,
ma netta: è l’esito di un gesto consapevole, di una resistenza silenziosa ma determinata. E proprio
in questa frattura si apre il cuore dell’opera: lì dove l’ordine si spezza, la vita torna a respirare.
Lacerare la gabbia significa riappropriarsi dello spazio interiore, recuperare la possibilità di
esistere al di là dei confini imposti.
Il fondale ad olio, denso e materico, costruito con stratificazioni cromatiche che oscillano tra i
marroni rugginosi e i neri profondi, evoca un paesaggio emotivo compromesso: corrosione,
tempo, memoria. Ma da questo sfondo ossidato affiora anche la tensione verso una via d’uscita,
un desiderio di verità e di riappropriazione dell’identità.
L’opera si pone come un invito a guardare oltre le sovrastrutture, a esplorare le crepe, a cogliere nei segni della frattura il primo passo verso la libertà. È una riflessione visiva sull’urgenza di
rompere gli automatismi interiorizzati, di riconoscere le gabbie invisibili che ci abitano e, infine, di
spezzarle.
L’opera non racconta, ma suggerisce. Non impone una lettura, ma apre un dialogo: con chi
osserva, con la sua storia, con le sue prigioni. In questo senso, l’opera non è soltanto
un’immagine: è un gesto di liberazione.
La pittura si fa varco, la materia si fa simbolo.
Al centro della composizione, l’acciaio rettangolare, freddo e tagliente, campeggia come una
gabbia mentale: uno spazio chiuso, razionalizzato, costruito con logiche estranee all’individuo.
Non è una prigione reale, ma un’architettura interiore, invisibile eppure potentemente presente.
È la rappresentazione di una condizione esistenziale che appartiene al nostro tempo: quella
dell’alienazione sociale, del senso di inadeguatezza, del distacco da sé e dagli altri.
Tuttavia, questa gabbia non è intatta. Qualcosa l’ha incrinata, spezzata. La rottura non è violenta,
ma netta: è l’esito di un gesto consapevole, di una resistenza silenziosa ma determinata. E proprio
in questa frattura si apre il cuore dell’opera: lì dove l’ordine si spezza, la vita torna a respirare.
Lacerare la gabbia significa riappropriarsi dello spazio interiore, recuperare la possibilità di
esistere al di là dei confini imposti.
Il fondale ad olio, denso e materico, costruito con stratificazioni cromatiche che oscillano tra i
marroni rugginosi e i neri profondi, evoca un paesaggio emotivo compromesso: corrosione,
tempo, memoria. Ma da questo sfondo ossidato affiora anche la tensione verso una via d’uscita,
un desiderio di verità e di riappropriazione dell’identità.
L’opera si pone come un invito a guardare oltre le sovrastrutture, a esplorare le crepe, a cogliere nei segni della frattura il primo passo verso la libertà. È una riflessione visiva sull’urgenza di
rompere gli automatismi interiorizzati, di riconoscere le gabbie invisibili che ci abitano e, infine, di
spezzarle.
L’opera non racconta, ma suggerisce. Non impone una lettura, ma apre un dialogo: con chi
osserva, con la sua storia, con le sue prigioni. In questo senso, l’opera non è soltanto
un’immagine: è un gesto di liberazione.











