La fotografia creativa di Ara Güler al Museo di Roma in Trastevere

kandilli 1965

Occhietti vispi, calvo, con ciuffetti di capelli ai lati delle tempie, barba più o meno lunga, sempre ben curata, naso pronunciato, appesantito dall’età ma pronto a divertirsi: è così che Ara Güler appare nei ritratti degli ultimi anni, precedenti la sua scomparsa.

Morto nel 2018 all’età di novant’anni, nacque a Beyoğlu –Istanbul, da genitori armeni e, nonostante i primi studi cinematografici, giovanissimo abbandona il cinema per dedicarsi al fotogiornalismo. Ad appena ventidue anni diventa, infatti, fotoreporter del giornale Yeni Istanbul. A trenta è il primo corrispondente dell’area medio oriente della rivista americana Time-Life, che nel mentre aveva aperto una sezione in Turchia, e collabora altresì con giornali internazionali di un certo calibro, quali Paris Match, Stern e Sonday Times.

A trentatré anni, chiamato direttamente da Henri Cartier-Bresson e da Marc Riboud, entra a far parte della prestigiosa agenzia Magnum Photos. Seppur siano numerosi i suoi servizi realizzati in giro per il mondo, il nome di Ara Güler è profondamente legato al suo luogo di nascita che gli valse, come risaputo, il soprannome de “l’occhio di Istanbul” o “il fotografo di Istanbul”.  Addirittura in città esiste un caffè col suo nome sin da quando era ancora in vita. Ed era proprio nell’Ara Café che era facile incontrarlo di pomeriggio, seduto al suo solito tavolino, intento a bere il suo solito tè. Tuttavia, nonostante fosse già noto (non dimentichiamo nel 1961 è divenuto il primo fotografo turco a divenire membro dell’American Society of Magazine Photographers e che nel 1968 il suo lavoro è stato esposto al MOMA di NY nella mostra Ten Masters of Color Phtography), il suo nome ha raggiunto la definitiva consacrazione internazionale allorquando il premio nobel per la letteratura Orhan Pamuk ha scelto le sue foto per illustrare il romanzo Istanbul – i ricordi e la città (2003).

Lo stretto legame che si instaurò tra il fotografo e lo scrittore fu talmente forte e reciproco, che un aneddoto raccontato da Pamuk ben riassume lo stato delle cose: “quando Ara mi chiese di farmi un ritratto, capii che ero diventato famoso”. Mentre Ara Güler diceva: “Orhan, tu ami le mie foto perché ti ricordano la tua infanzia”, e Pamuk pronto ribatteva: “io amo le tue foto perché sono belle” e dai loro confronti e dibattiti sulla bellezza e sul paesaggio è nato il romanzo dedicato all’incantevole e misteriosa capitale turca. Visitando la monografica (che ho avuto la fortuna di vedere poco prima del lockdown), costruita con una selezione su un archivio di oltre due milioni di scatti, di circa ottanta immagini, allestita nel Museo di Roma in Trastevere, di cui quarantacinque sono quelle dedicate a Istanbul, oltre alla nostalgia per qualcosa che è passato, finito, concluso, si viene avvolti dall’ebbrezza della scoperta e della conoscenza.

Beyoğlu, 1958

Beyoğlu, 1958

Ripercorrerne i veloci cambiamenti, mirati ad ammodernarla e che l’hanno caratterizzata a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, offre l’emozione di scoprire strade, ponti, persone, modi di fare, abitudini, di una città che, nonostante l’affanno a rendersi più occidentale, mantiene, e fa convivere in perfetto equilibrio, la sua primigenia anima orientale.

Karaköy, 1956

Karaköy, 1956

E gli scatti di Ara Güler hanno la singolare capacità di raccogliere, all’interno di uno scatto, la vita. Non è un caso, infatti, che egli, più che fotografo giornalistico, si sentisse un “fotografo dell’umanità”. Quell’umanità colta anche nella sezione riservata ai ritratti dei personaggi famosi, spesso ripresi con inedite inquadrature.

Per le misure di contenimento del Covid-19, la mostra è attualmente sospesa.
La nuova programmazione sarà fornita al ripristino della normalità. Per tutte le info potete cliccare qui.

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4 Maggio 2020
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