opera
Contrazione#0612
categoria | Fotografia |
soggetto | Architettura |
tags | interno, spazio, disabitato, abbandonato, luce artificiale, illuminazione, architettura |
base | 50 cm |
altezza | 75 cm |
profondità | 6 cm |
anno | 2013 |
Stefano Tubaro | progetto “Contrazioni” | 2010 - 2016
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Contrazione#0612, stampa fine art giclée ai pigmenti su carta cotone, assemblaggio su pannello acid free, cornice in legno di faggio
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[…] L’altro elemento che la fotografia non può nascondere è quello del tempo dello scatto. È un elemento cruciale, perché ci consente di mettere in relazione l’immagine, ogni immagine, con la storia. È uno degli elementi cruciali nelle opere di Stefano Tubaro. I soggetti, in effetto sono rovine, opere umane deteriorate dal tempo. Quando parliamo di rovine, siamo abituati a considerare edifici deteriorati da eventi traumatici, terremoti, incendi, guerre, oppure da tempi molto lunghi. Le rovine di Tubaro sono di un altro genere. Salvo qualche eccezione, sono recenti, il che ci suggerisce che nei tempi dell’edilizia funzionale i tempi della rovina si sono accorciati. Poi ci mostrano ambienti lasciati così com’erano, con pannelli di comando, arredi, oggetti, lasciati cadere al momento dell’abbandono e rimasti lì. Tutto questo, assieme all’abbondanza dei reperti fotografati da Tubaro, ci consente di capire come la nostra società sia singolarmente incapace di riutilizzare l’edilizia consumata, ma anche di rottamarla, demolirla. Le rovine delle ultime ere industriali restano semplicemente lì, per anni e anni, alla ricerca di un riutilizzo chearriva di rado. Le nostre caserme, costruite per la leva di massa, sono lì inusate da poco più di dieci anni, e i casi di riutilizzo sono l’eccezione, non la regola. E sono già sulla buona strada per essere titolate rovine: una recente indagine, legata alla necessità di ricollocare gli immigrati, ha rivelato che gli edifici usabili si contano nella nostra regione sulle dita di una mano. Esiste una sostanziale incapacità a progettare il riuso, la modifica, la valorizzazione dell’esistente: se emerge una nuova necessità si pensa subito a nuova edificazione, e solo in via molto subordinata al riuso. È l’eredità dei tempi in cui potere locale e industria edilizia si sostenevano a vicenda, di cui subiamo ancora i postumi nell’ideologia delle grandi opere. E così gli edifici non più utilizzati si avviano a una rapida metamorfosi. Da luoghi di lavoro e produzione si avviano a diventare reperti, testimonianze per chi voglia leggerle, primo passo sulla strada dello status di rovina. Fin qui, quella di Stefano Tubaro si configura come un’operazione di documentazione. Ma basta dare un’occhiata alle sue opere per capire che non si tratta solamente di questo. Le immagini sono colorate, e alcune aree subiscono una colorazione che appare come artificiale, creata e scelta dall’artista. La tecnica è quella delle luci artificiali filtrate attraverso delle gelatine colorate: una tecnica le cui origini vanno ascritte al mondo dello spettacolo, al teatro. Tutto questo crea un istantaneo corto circuito: alla documentazione fotografica siamo spinti, spesso sbagliando, a credere come se si trattasse di una trascrizione oggettiva, mentre il mondo della scena, del teatro, si basa su una complicità tra attori e pubblico, e cioè la comprensione che si tratta di un evento costruito dalla fantasia e dalla creatività umana, di una fiction. Nessuno è disposto a credere alla verità teatrale, mentre molti di noi reputano istintivamente (ripetiamo, spesso sbagliando) la documentazione fotografica come vera. Il corto circuito dell’artista ci porta così inevitabilmente a uno dei temi fondamentali dell’estetica artistica contemporanea. Lo sappiamo, sin dai tempi del teatro greco (cioè uno dei filoni-madre della nostra cultura) che la fiction non è racconto accaduto, eppure è in grado di portarci più in profondità di ogni altra espressione in fondo ai meandri dell’animo umano. Nello stesso modo, l’estetica fotografica contemporanea si chiede se le immagini messe in scena dagli artisti siano in grado di portarci più vicino al cuore delle cose, rispetto ai lavori di documentazione e testimonianza. Non c’è una risposta che valga sempre, la forza delle singole opere costringe a variare continuamente il nostro giudizio. La contaminazione di Tubaro contiene in sé una propria specifica risposta.
Fabio Amodeo
(testo di presentazione nel catalogo della mostra “Metamorfosi dei luoghi”, Galleria Civica Tina Modotti, Udine - Associazione culturale Colonos, Villacaccia di Lestizza, Udine 2016)
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[…] Ma Tracce luminose solcheranno il panorama culturale italiano anche prima della Milano Design Week. A Trieste, dal 3 marzo al 4 aprile, infatti, gli spazi espositivi di Palazzo Costanzi ospitano l’affascinante, a tratti inquietante, mostra fotografica di Stefano Tubaro. A caratterizzare le 50 opere esposte l’uso – teatrale – della luce artificiale in contesti architettonici e abitativi fatiscenti. Se i Contrattempi ritraggono edifici dismessi trafitti da luci psichedeliche, le immagini della serie Contrazioni esplorano gli interni, ambienti domestici rurali o locali industriali spogli. Le porte delle stanze labirintiche si aprono su androni e corridoi deserti. Tra macchie di luci variopinte e profonde ombre liquide si scorgono angoli non più abitati, dove a sopravvivere sono alcuni arredi in disuso.
“[…] hanté: ricorro a questo termine francese perché non ne esiste, in italiano, uno altrettanto appropriato ed efficace” scrive Ezio Sinigaglia in Sillabario all’incontrario, TerraRossa Edizioni, che, spiegandoci questo vocabolo intraducibile, sembra descrivere le sensazioni che pervadono, o forse suscitano, le opere fotografiche di Stefano Tubaro. “A volte lo si può tradurre con ‘stregato’, ma non significa stregato: molto più sobriamente, hanté significa abitato, non però abitato da persone o da animali: abitato in quel modo specialissimo e fluttuante, inverosimile e instabile, che è proprio di spiriti e fantasmi: abitato è troppo lieve, infestato troppo greve, stregato fuorviante, incantato eufemistico, ossessionato, assillato, perseguitato tutti arbitrariamente spregiativi”. ”Gli abitanti di una dimora hantée sono insieme leggeri e ossessivi, carezzevoli e assillanti, persecutori e incantevoli: sono streghe e fate, mettono paura e mettono coraggio, respingono ed attraggono e soprattutto, soprattutto, ci sono e non ci sono” conclude Sinigaglia. Spazi mutevoli e cangianti, magnetici e conturbanti, tetri e insieme stupefacenti, sempre palpitanti. Come la luce che li abita.
Claudia Foresti
(recensione pubblicata sul magazine “The Book” n°16, Milano, 2023)
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Contrazione#0612, stampa fine art giclée ai pigmenti su carta cotone, assemblaggio su pannello acid free, cornice in legno di faggio
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[…] L’altro elemento che la fotografia non può nascondere è quello del tempo dello scatto. È un elemento cruciale, perché ci consente di mettere in relazione l’immagine, ogni immagine, con la storia. È uno degli elementi cruciali nelle opere di Stefano Tubaro. I soggetti, in effetto sono rovine, opere umane deteriorate dal tempo. Quando parliamo di rovine, siamo abituati a considerare edifici deteriorati da eventi traumatici, terremoti, incendi, guerre, oppure da tempi molto lunghi. Le rovine di Tubaro sono di un altro genere. Salvo qualche eccezione, sono recenti, il che ci suggerisce che nei tempi dell’edilizia funzionale i tempi della rovina si sono accorciati. Poi ci mostrano ambienti lasciati così com’erano, con pannelli di comando, arredi, oggetti, lasciati cadere al momento dell’abbandono e rimasti lì. Tutto questo, assieme all’abbondanza dei reperti fotografati da Tubaro, ci consente di capire come la nostra società sia singolarmente incapace di riutilizzare l’edilizia consumata, ma anche di rottamarla, demolirla. Le rovine delle ultime ere industriali restano semplicemente lì, per anni e anni, alla ricerca di un riutilizzo chearriva di rado. Le nostre caserme, costruite per la leva di massa, sono lì inusate da poco più di dieci anni, e i casi di riutilizzo sono l’eccezione, non la regola. E sono già sulla buona strada per essere titolate rovine: una recente indagine, legata alla necessità di ricollocare gli immigrati, ha rivelato che gli edifici usabili si contano nella nostra regione sulle dita di una mano. Esiste una sostanziale incapacità a progettare il riuso, la modifica, la valorizzazione dell’esistente: se emerge una nuova necessità si pensa subito a nuova edificazione, e solo in via molto subordinata al riuso. È l’eredità dei tempi in cui potere locale e industria edilizia si sostenevano a vicenda, di cui subiamo ancora i postumi nell’ideologia delle grandi opere. E così gli edifici non più utilizzati si avviano a una rapida metamorfosi. Da luoghi di lavoro e produzione si avviano a diventare reperti, testimonianze per chi voglia leggerle, primo passo sulla strada dello status di rovina. Fin qui, quella di Stefano Tubaro si configura come un’operazione di documentazione. Ma basta dare un’occhiata alle sue opere per capire che non si tratta solamente di questo. Le immagini sono colorate, e alcune aree subiscono una colorazione che appare come artificiale, creata e scelta dall’artista. La tecnica è quella delle luci artificiali filtrate attraverso delle gelatine colorate: una tecnica le cui origini vanno ascritte al mondo dello spettacolo, al teatro. Tutto questo crea un istantaneo corto circuito: alla documentazione fotografica siamo spinti, spesso sbagliando, a credere come se si trattasse di una trascrizione oggettiva, mentre il mondo della scena, del teatro, si basa su una complicità tra attori e pubblico, e cioè la comprensione che si tratta di un evento costruito dalla fantasia e dalla creatività umana, di una fiction. Nessuno è disposto a credere alla verità teatrale, mentre molti di noi reputano istintivamente (ripetiamo, spesso sbagliando) la documentazione fotografica come vera. Il corto circuito dell’artista ci porta così inevitabilmente a uno dei temi fondamentali dell’estetica artistica contemporanea. Lo sappiamo, sin dai tempi del teatro greco (cioè uno dei filoni-madre della nostra cultura) che la fiction non è racconto accaduto, eppure è in grado di portarci più in profondità di ogni altra espressione in fondo ai meandri dell’animo umano. Nello stesso modo, l’estetica fotografica contemporanea si chiede se le immagini messe in scena dagli artisti siano in grado di portarci più vicino al cuore delle cose, rispetto ai lavori di documentazione e testimonianza. Non c’è una risposta che valga sempre, la forza delle singole opere costringe a variare continuamente il nostro giudizio. La contaminazione di Tubaro contiene in sé una propria specifica risposta.
Fabio Amodeo
(testo di presentazione nel catalogo della mostra “Metamorfosi dei luoghi”, Galleria Civica Tina Modotti, Udine - Associazione culturale Colonos, Villacaccia di Lestizza, Udine 2016)
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[…] Ma Tracce luminose solcheranno il panorama culturale italiano anche prima della Milano Design Week. A Trieste, dal 3 marzo al 4 aprile, infatti, gli spazi espositivi di Palazzo Costanzi ospitano l’affascinante, a tratti inquietante, mostra fotografica di Stefano Tubaro. A caratterizzare le 50 opere esposte l’uso – teatrale – della luce artificiale in contesti architettonici e abitativi fatiscenti. Se i Contrattempi ritraggono edifici dismessi trafitti da luci psichedeliche, le immagini della serie Contrazioni esplorano gli interni, ambienti domestici rurali o locali industriali spogli. Le porte delle stanze labirintiche si aprono su androni e corridoi deserti. Tra macchie di luci variopinte e profonde ombre liquide si scorgono angoli non più abitati, dove a sopravvivere sono alcuni arredi in disuso.
“[…] hanté: ricorro a questo termine francese perché non ne esiste, in italiano, uno altrettanto appropriato ed efficace” scrive Ezio Sinigaglia in Sillabario all’incontrario, TerraRossa Edizioni, che, spiegandoci questo vocabolo intraducibile, sembra descrivere le sensazioni che pervadono, o forse suscitano, le opere fotografiche di Stefano Tubaro. “A volte lo si può tradurre con ‘stregato’, ma non significa stregato: molto più sobriamente, hanté significa abitato, non però abitato da persone o da animali: abitato in quel modo specialissimo e fluttuante, inverosimile e instabile, che è proprio di spiriti e fantasmi: abitato è troppo lieve, infestato troppo greve, stregato fuorviante, incantato eufemistico, ossessionato, assillato, perseguitato tutti arbitrariamente spregiativi”. ”Gli abitanti di una dimora hantée sono insieme leggeri e ossessivi, carezzevoli e assillanti, persecutori e incantevoli: sono streghe e fate, mettono paura e mettono coraggio, respingono ed attraggono e soprattutto, soprattutto, ci sono e non ci sono” conclude Sinigaglia. Spazi mutevoli e cangianti, magnetici e conturbanti, tetri e insieme stupefacenti, sempre palpitanti. Come la luce che li abita.
Claudia Foresti
(recensione pubblicata sul magazine “The Book” n°16, Milano, 2023)