Out there – Il golfista

opera
Out there – Il golfista
Out there – Il golfista
categoria Scultura
soggetto Paesaggio, Natura, Figura umana
tags nicolas ballario, iperoggetto, pianeta, golfista, gianni lucchesi, out there
base 100 cm
altezza 3 cm
profondità 100 cm
anno 2021
In “Out There” ho tentato di raccontare il difficile e complicato rapporto tra l’uomo e la sua percezione riguardo i grandi problemi legati all’ambiente. E’ un argomento non facile da affrontare perchè si corre il rischio di cadere in ovvie e sterili conclusioni: istintivamente siamo tutti portati ad una immediata presa di posizione ipocritamente critica verso il grande sistema che a difesa dei propri interessi economici ci sta portando incontro alla distruzione.
Siamo noi che generiamo il sistema, siamo dentro il sistema, lo alimentiamo e nonostante la teorica presa di coscienza del problema continuiamo a procrastinare, a mostrarci preoccupati ma inermi. Se fossimo alle prese con un grave problema di salute personale porremmo il rimedio come priorità assoluta. Se avessimo un bozzolo alla tempia rimanderemmo a dopo le vacanze la visita medica?
Lo sguardo in “Out there” non è rivolto a denunciare questo scellerato comportamento del sistema che continua ad ignorare il problema a difesa di un’economia moribonda.
Nelle opere che presento mi concentro sulla reazione psicologica dell’uomo che, di fronte ad un grande problema, che Timothy Morton definisce “iperoggetto”, reagisce generando in se una sorta di auto-difesa, mantenendo a distanza il problema.
“Gli Iperoggetti non sono semplici costrutti mentali (o ideali), ma entità reali la cui essenza ultima è preclusa agli esseri umani”. L’uomo è per sua natura come l’orchestrina del Titanic che continua a suonare mentre la nave affonda, il malato terminale che sfoglia la rivista dell’agenzia di viaggi. In “Out there” prevale la tenerezza alla rabbia.
Nell'iperoggetto in cui dentro siamo.

Ferro e bronzo

Out there
di Nicolas Ballario

In questo titolo, Out There, non c’è alcun senso poetico di evasione, non ci sono orizzonti lontani evocati come sogno di conquista dell’essere umano. E se è vero che la ricerca di Gianni Lucchesi cammina sulle gambe della semplificazione, è altrettanto vero che la sua esigenza è quella di trovare un lessico teatrale, che svela il proprio sorprendente percorso solo ad avventura compiuta e che permette di abbandonare il mondo e di entrare nell’opera. Le immagini che ci offre non sono semplice rappresentazione, sono flusso di materia che vive e che è nostro complice, perché in un certo senso ci conforta pensare che se c’è un “là fuori” noi abbiamo la fortuna di vivere “qui dentro”. Ci sono presenze di ogni sorta e tipo che si possono vedere, ma in realtà è lo spettatore stesso a rappresentare e a completare l’opera. Questo perché solo attraverso una proiezione della nostra mente, forse animata da impulso di inadeguatezza, riusciamo a capire che c’è un perverso senso di simmetria tra ciò che vediamo e ciò che invece possiamo solo immaginare. Questi due aspetti si completano a vicenda e a noi che guardiamo danno un senso di mancanza, è vero, ma quel vuoto non è mai stato così incombente. Lucchesi sa giocare con la percezione e quei monoliti si fanno unità di misura, per capire quanto siano piccole quelle figure che guardano lontano. Notate che a nessuno di noi viene in mente di chiederci chi siano, ma solo dove guardino? Perché i loro sguardi sono tutti protesi altrove? E l’irrefrenabile voglia di seguire il loro sguardo è sollecitata dall’uso della luce di questa mostra, che non illumina, ma modella. Perché tutte queste piccole sculture sono isole che sorgono in una luce navigabile, che è fiume. E se fossimo capaci di salpare potremmo scoprire a cosa porta questo flusso, potremmo capire cosa si trova nell’altra faccia di questo specchio che solo l’artista può vedere e si dispera per il fatto di essere così solo in questa possibilità.

E ancora più viva e morbosa si fa la nostra curiosità nel vedere quei branchi di cervi e di uomini che si spostano nel limbo delle tele, perché a differenza delle sculture loro non solo hanno visto ciò che noi non vediamo, ma si stanno spostando per raggiungere quella meta. Cosa vuole dirci Lucchesi con questa esposizione? Che l’epoca contemporanea è fatta di connessioni e di possibilità di conoscenza e che l’errore più grande è confondere l’impalpabile con l’improbabile. L’epoca contemporanea sembra fatta di tante piccole apocalissi che però noi ci ostiniamo a oscurare, a non voler vedere. E anziché prendere per mano il dolore per capirlo e accompagnarlo in un angolo, continuiamo a provocarlo, a farlo avvicinare per poi scansarci di colpo, come fosse un toro che ci carica in un’arena. E noi toreri condannati alla sconfitta. Ecco dove guardano quei piccoli uomini, così ben vestiti come ad aspettare una visita di qualcuno di importante. Loro, quelle miniature nella cui misura c’è tutto il senso di Nietzsche che ci ammoniva dicendo che quanto più ci innalziamo, tanto più piccoli sembriamo a quelli che non possono volare, sanno muoversi verso la consapevolezza che la ricerca e non l’elusione è il senso della responsabilità di essere vivi, perché nel fuggire forse si curano momentaneamente i feriti, ma non si potrà mai vincere la guerra contro le catastrofi del nostro tempo. Il distacco non è una soluzione, mentre l’incontro può esserlo. Allora ecco che la narrazione di Lucchesi lascia il posto a un gusto amaro, a un senso di colpa: la teoria dei sei gradi di separazione in semiotica e in sociologia è un’ipotesi secondo la quale ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di 5 intermediari. Ecco, in questa sala oggi ci accorgiamo che l’intermediario è uno, è l’artista che ha visto cosa c’è dopo. E la cosa assurda è che questa vicinanza non è sufficiente, perché non ci importa che le violenze, le catastrofi climatiche e ambientali, le guerre, le migrazioni di massa, le epidemie che sono all’ordine del giorno accadano in un altro continente, in un’altra nazione, in un’altra città o in un altro pianerottolo. L’importante è che non ci riguardino. Per questo si legge anche un diffuso senso di insicurezza da parte dell’autore, la paura di non riuscire l’obiettivo. Noi di questo siamo perversamente felici, perché quando un artista è sicuro di sé, è finito.

Ho sempre pensato che Gianni Lucchesi con quella sua ricerca continua di intrecci emotivi e viscerali, di insofferenza tra materiali e forme, di contatti tra sagome e contiguità di atteggiamenti, di relazione tra profili e legami tra impulsi, altro non faccia che tentare di capovolgere un distacco. Ma se con i suoi lavori precedenti credevo che lavorasse per colmare un vuoto, per riempire una casella della sua vita che ancora non riusciva a definire, con questa mostra che arriva nel culmine della sua maturità artistica credo lui sia riuscito a compiere un passo ulteriore. A vedere, ad aver capito come fare di un’assenza, una presenza. E in mezzo a queste figure cercheremo di capire quale ci somiglia di più, di capire quale particella invisibile siamo noi. Che sia per paura o per emancipazione, perché Lucchesi ci suggerisce che ciò che non esiste e ciò che non si vede sono potenzialmente fratelli.
artista
Gianni Lucchesi
Pittore, Scultore, Artista, Pisa
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