opera
Inciampando sopra il filo di una ragnatela
categoria | Installazione |
soggetto | Politico/Sociale |
tags | vetro, glass, patience, pazienza, wound, ferita, time, tempo, fragile, fragment, frammenti, dentro fuori, luce, light, inside outside, ombra, shadow, vuoto, void, respiro, breath |
base | 17 cm |
altezza | 17 cm |
profondità | 15 cm |
anno | 2018 |
frammenti di bicchieri divetro ricomposti -serie di 6-
Disegno su rivista d'arte (muosse)
testo di Giovanna Brambilla
Il vetro è magico. Metamorfosi della sabbia, su cui si cammina avvolti da calore e dagli infiniti granelli che si spostano per accogliere il nostro passo, sabbia dilavata dalla risacca delle onde, che diventa contenitore d’acqua, potenzialmente scheggia che ferisce, materia attraversabile solo dalla luce ma impermeabile a qualsiasi altro corpo. La sua trasparenza è al tempo stesso la sua condanna, perché non consente inganni, come sapeva bene anche Gianni Rodari, che ipotizzava come tremendo un mondo in cui noi fossimo trasparenti, e tutti potessero leggere emozioni e turbamenti. Esiste un rito, nei matrimoni ebraici, secondo il quale lo sposo deve rompere un bicchiere avvolto in una stoffa, schiacciandolo con il piede: è un gesto carico di significati storici, liturgici scaramantici, ironici: ricorda la distruzione del tempio di Gerusalemme, ma anche la fragilità dei rapporti umani che le nozze devono proteggere, e fa dello humour sul fatto che quella sarà l’ultima dominazione messa in atto dall’uomo, perché in un legame ci si rispetta.
Quante di queste suggestioni si trovano in questo lavoro di Clara Luiselli? Molte, anche perché si tratta di un’artista che ha sempre fatto della ricerca su ciò che è visibile e ciò che è celato il filo rosso della sua poetica. L’opera non è un ready made. Per nulla. E’ una palingenesi di qualcosa che non era più, una metamorfosi che ripristina un oggetto dopo averlo distrutto, e lo fa a fatica, col rischio di ferirsi, con la pazienza di sapere controllare i propri gesti con millimetrica precisione.
Un bicchiere illeso contiene una forma ibrida nata dall’accostamento di schegge di vetro di un altro bicchiere: la forma perfetta vede sbocciare al suo interno, e fuoriuscire, una forma ferita. Tante volte si è detto delle donne che contengono, mediano, che il loro corpo sa farsi carico delle fatiche degli altri, che ha un’energia tale da sapere generare una vita senza esaurirsi, eppure questo corpo, come un bicchiere, va riempito, da gioie, emozioni, scatti di coraggio, stupori, per non creparsi, per non restare vuoto. Tante volte il nostro sguardo non è capace di andare oltre la pelle delle persone, si siede volutamente superficiale su quel benessere che in fondo ci dà il convincerci che le persone intorno a noi stiano bene, siano appagate. Lo si può fare perché l’anima non è trasparente come il vetro, e si possiamo oscurare ciò che accade al suo interno, ma se non è trasparente come il vetro non per questo non è ugualmente fragile e delicata, e l’opera dell’artista ricorda dal vivo cosa significa essere a pezzi, essere fatte a pezzi, ricorda con la bellezza acuminata e pericolosa del suo lavoro che ricomporsi, ricucire, rimettere insieme i frammenti, è un atto epico, titanico, di immenso coraggio.
Più semplice, certo, raccogliere le schegge e fare finta di niente, più semplice buttarle via, e diventare una conchiglia vuota, una campana che non suona, un involucro freddo, più vitale, invece, non cedere alla resa, credere che le ferite creino una nuova umanità, che le cadute abbiano una loro bellezza, che il senso del bicchiere sia la rifrazione della luce, e che la cura di se stessi sia un’arma pacifica con cui affrontare la vita. Questo perché, come affermava il grande poeta Montale, ribadendo la sua fiducia nella qualità delle relazioni umane, “Ho tanta fede che mi brucia; certo / chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere / senz'accorgersi ch'era una rinascita”.
Disegno su rivista d'arte (muosse)
testo di Giovanna Brambilla
Il vetro è magico. Metamorfosi della sabbia, su cui si cammina avvolti da calore e dagli infiniti granelli che si spostano per accogliere il nostro passo, sabbia dilavata dalla risacca delle onde, che diventa contenitore d’acqua, potenzialmente scheggia che ferisce, materia attraversabile solo dalla luce ma impermeabile a qualsiasi altro corpo. La sua trasparenza è al tempo stesso la sua condanna, perché non consente inganni, come sapeva bene anche Gianni Rodari, che ipotizzava come tremendo un mondo in cui noi fossimo trasparenti, e tutti potessero leggere emozioni e turbamenti. Esiste un rito, nei matrimoni ebraici, secondo il quale lo sposo deve rompere un bicchiere avvolto in una stoffa, schiacciandolo con il piede: è un gesto carico di significati storici, liturgici scaramantici, ironici: ricorda la distruzione del tempio di Gerusalemme, ma anche la fragilità dei rapporti umani che le nozze devono proteggere, e fa dello humour sul fatto che quella sarà l’ultima dominazione messa in atto dall’uomo, perché in un legame ci si rispetta.
Quante di queste suggestioni si trovano in questo lavoro di Clara Luiselli? Molte, anche perché si tratta di un’artista che ha sempre fatto della ricerca su ciò che è visibile e ciò che è celato il filo rosso della sua poetica. L’opera non è un ready made. Per nulla. E’ una palingenesi di qualcosa che non era più, una metamorfosi che ripristina un oggetto dopo averlo distrutto, e lo fa a fatica, col rischio di ferirsi, con la pazienza di sapere controllare i propri gesti con millimetrica precisione.
Un bicchiere illeso contiene una forma ibrida nata dall’accostamento di schegge di vetro di un altro bicchiere: la forma perfetta vede sbocciare al suo interno, e fuoriuscire, una forma ferita. Tante volte si è detto delle donne che contengono, mediano, che il loro corpo sa farsi carico delle fatiche degli altri, che ha un’energia tale da sapere generare una vita senza esaurirsi, eppure questo corpo, come un bicchiere, va riempito, da gioie, emozioni, scatti di coraggio, stupori, per non creparsi, per non restare vuoto. Tante volte il nostro sguardo non è capace di andare oltre la pelle delle persone, si siede volutamente superficiale su quel benessere che in fondo ci dà il convincerci che le persone intorno a noi stiano bene, siano appagate. Lo si può fare perché l’anima non è trasparente come il vetro, e si possiamo oscurare ciò che accade al suo interno, ma se non è trasparente come il vetro non per questo non è ugualmente fragile e delicata, e l’opera dell’artista ricorda dal vivo cosa significa essere a pezzi, essere fatte a pezzi, ricorda con la bellezza acuminata e pericolosa del suo lavoro che ricomporsi, ricucire, rimettere insieme i frammenti, è un atto epico, titanico, di immenso coraggio.
Più semplice, certo, raccogliere le schegge e fare finta di niente, più semplice buttarle via, e diventare una conchiglia vuota, una campana che non suona, un involucro freddo, più vitale, invece, non cedere alla resa, credere che le ferite creino una nuova umanità, che le cadute abbiano una loro bellezza, che il senso del bicchiere sia la rifrazione della luce, e che la cura di se stessi sia un’arma pacifica con cui affrontare la vita. Questo perché, come affermava il grande poeta Montale, ribadendo la sua fiducia nella qualità delle relazioni umane, “Ho tanta fede che mi brucia; certo / chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere / senz'accorgersi ch'era una rinascita”.